Sanzioni alla Russia, i dubbi dell’Economist: siamo atlantisti o masochisti?

Corrado Ocone

Are sanctions working? A chiederselo, a porre l’interrogativo, non è qualche più o meno occulto filoputiniano di casa nostra, né Matteo Salvini, ma nientemeno che, con uno strillo di copertina, l’Economist, il giornale della City, la voce per antonomasia dell’establishment economico-politico globale. Secondo il settimanale, non solo l’economia russa si è dimostrata molto più resiliente, come si dice ora, della nostra, ma, a sei mesi dall’invasione dell’Ucraina, può dirsi che essa si sia stabilizzata.

E ciò proprio mentre l’Occidente è in balia di una crisi dei prezzi energetici, in particolare di quello del gas, che presto si riverserà su altri prodotti generando inflazione e in prospettiva anche la recessione. A fronte di un calo stimato del pil del 15%, che avrebbe dovuto mettere in ginocchio l’economia russa e tendenzialmente creare tensioni sociali tali da mettere ko lo stesso Putin, il ribasso previsto per l’anno in corso è solo del 6%. Come è nello stile del settimanale inglese, ogni affermazione è corroborata da date e tabelle, in quello che è un vero e proprio report di questo ennesimo fallimento previsionale dei tecnici al servizio dei nostri governi. E, ovviamente e soprattutto, dei politici che non solo li hanno seguiti pedissequamente, con una sorta di sudditanza psicologica che andrebbe a sua volta studiata, ma che attorno alle loro errate previsioni hanno costruito una retorica trionfalistica e autocompiaciuta che non tollerava discussioni, distinguo, ragionamenti che andassero troppo per il sottile. Ogni dubbio veniva automaticamente bollato come connivenza col nemico, come un modo di favorirlo casomai perché a suo libro paga.

La sinistra nostrana, come al solito, ha sguazzato alla grande in questo polpettone mainstream e in questo dispositivo retorico, usandoli entrambi contro le destre e oscurando sistematicamente (attraverso i mezzi di comunicazione che sono sotto il suo controllo) le voci che osavano porsi gli stessi interrogativi che oggi si pone l’Economist. Ciò che però andrebbe sottolineato e stigmatizzato con forza, anche perché rappresenta una costante del modo di fare della sinistra, è la confusione di piani e l’inquinamento del dibattito che se ne è fatto scaturire (con una destra, va detto, spesso non all’altezza e quindi incapace di articolare una risposta convincente).

I piani da tenere doverosamente distinti, e che distinti non sono stati tenuti, erano due:

  1. quello della fedeltà atlantica e occidentale, che non poteva assolutamente essere messa in dubbio, e quindi della presa di distanza netta dalla politica imperialistica russa e in genere dai regimi autocratici;
  2. quello delle politiche concrete da attuare per arginare queste autocrazie e per dare una risposta efficace e sostenibile alla unilaterale e ingiustificabile invasione russa dell’Ucraina.
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