Acciaio, ceramica, carta: ecco le imprese che decidono di non riaprire
di Federico Fubini
A 48 anni Ilenia Gatto, della Cgil di Modena, si è regalata una crociera con il marito per i trent’anni di matrimonio. Gli arcipelaghi greci, bellissimi. Solo elemento che si è insinuato a turbare la vacanza, il telefono della sindacalista. La settimana scorsa ha iniziato a riempirsi di messaggi: a ferie ancora da finire, in una delle province più ricche d’Italia tredici aziende stavano già chiedendo di avviare la cassa integrazione. Per loro, produrre con questi costi del gas serve solo a perdere soldi. Meglio fermarsi.E non è stato nulla rispetto al primo giorno di lavoro, per Ilenia Gatto. In otto ore altre sette richieste di attivare cassa integrazione per tutti gli addetti, sempre con la stessa motivazione: scarsità e prezzi alle stelle della sola materia prima che permette di cuocere la ceramica a 1.200 gradi. Il risultato è che siamo ancora in agosto e i nuovi cassaintegrati nella provincia a più bassa disoccupazione nel Paese sono già quasi mille. «Ora le aziende risparmieranno — dice la sindacalista —. Ma gli operai si troveranno il 20% di reddito in meno e bollette di casa moltiplicate di varie volte. Sarà un problema sociale serio». Anche perché tutti nel distretto hanno capito che almeno per tutto settembre le chiusure produttive si allargheranno a macchia d’olio, giorno per giorno, non appena gli imprenditori avranno fatto i conti sulle bollette.
MoMa Ceramiche
Renzo Vacondio, azionista, vicepresidente e amministratore delegato di MoMa Ceramiche — oltre cento milioni di fatturato e 350 dipendenti fra Sassuolo, Finale Emilia e Fiorano — ha deciso che ripartire dopo le vacanze semplicemente non vale la pena. Non importa che sia pieno di ordini da tutto il mondo come non capitava da tempo. Per fare un metro quadro di piastrelle occorrono tre metri cubi di gas, che prima costavano un euro ma ora nove. Quando nel calcolo si mette il trasporto, già solo l’energia assorbe dodici euro dei costi di un metro di pavimento che non si vende per più di sedici euro. Impossibile alzare i prezzi di listino ancora di più, quando dall’India le piastrelle arrivano a meno di un terzo. «Se a marzo il gas continuerà a costare come adesso, si farà fatica ad andare avanti — dice Vacondio a denti stretti —. Può darsi ci convenga trasformarci in trader che comprano dai Paesi a basso costo e rivendono. Sarebbe drammatico». Vacondio ha già incontrato i sindacati e l’annuncio della cassa integrazione è andato liscio, in apparenza. Nel profondo però no. «Vede, io vissuto il terremoto del 2012 — fa l’imprenditore —. Lo stabilimento di Finale Emilia crollò, ma allora fu più semplice emotivamente: sapevo cosa fare per ripartire, oggi invece l’incertezza è totale». Nel modenese le aziende che osano venire allo scoperto con la scelta di fermarsi sono più numerose che nel resto d’Italia. Ma anche qui l’idea di non ripartire dopo le vacanze è vissuta da alcuni come un’onta. Una ferita all’onore industriale. «Non metta il nome della mia azienda, stia sul generico», si accalora un imprenditore che nel luglio dell’anno scorso ha pagato gas e elettricità 350 mila euro e in questo agosto avrebbe avuto una bolletta energetica da quattro milioni e mezzo, se avesse tenuto aperto. I suoi dipendenti ora sono in ferie forzate e presto saranno in cassa integrazione anche loro. «Venerdì ho l’incontro con i delegati sindacali ma non faccia nomi, per carità. Non posso spaventare oltre le banche e i fornitori».
La siderurgia
L’idea di non ripartire dopo le ferie è vissuta (per ora) come uno sporco segreto da occultare soprattutto nella siderurgia. Già tre o quattro aziende hanno deciso di tenere giù le serrande, ma ancora non escono allo scoperto. Lo fa invece Paola Artioli, azionista unica e amministratrice delegata della bresciana Aso Siderurgica. Governa 230 dipendenti, fattura circa 130 milioni e da mesi si destreggia attraverso i picchi del gas. «Lavoriamo a stop and go» dice l’imprenditrice, che ha tenuto i forni accesi non più della metà del tempo e per l’altra metà ha attinto alla cassa integrazione. Cerca sempre di compattare la produzione di notte, quando i costi orari dell’energia scendono. «In base a commesse, tariffe e quotazioni del gas cerchiamo di incastrare tutto nel minore tempo di lavoro possibile, domeniche incluse — dice lei —. Stiamo facendo fatica, ma noi italiani siamo bravi: veniamo da una selezione darwiniana, l’imprenditorialità ce l’hanno passata i nostri padri nel sangue». Pochi invece hanno ereditato i mezzi per far fronte alla nuova ondata di richieste degli intermediari del gas: fidejussioni astronomiche o colossali garanzie tangibili per accedere ai contratti di fornitura dei prossimi mesi. «Pochi possono permetterselo — dice Antonio Gozzi, presidente di Duferco e di Federacciai —. Forse è il momento di pensare a un sistema di garanzie pubbliche perché le aziende possano lavorare».
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