La crisi energetica e il fattore Berlino
Lucio Caracciolo
Il nostro futuro dipenderà in decisiva parte da tempi e modi con cui la Germania uscirà dalla crisi strutturale in cui è finita causa invasione russa dell’Ucraina. Il cancelliere Olaf Scholz fu rapido nel cogliere il cambio di paradigma, classificato «svolta epocale» («Zeitenwende»). Davanti al parlamento plaudente Scholz annunciò il 27 febbraio un fondo di 100 miliardi per rinsanguare le Forze armate tedesche, disarmate alla fine della guerra fredda, e lo stanziamento di una somma annua pari almeno al 2% del pil per la Bundeswehr, ciò che farebbe della Germania il terzo paese al mondo per investimenti militari. Salto quantico per l’autoproclamata «potenza di pace».
Dalle parole ai fatti – a parte l’annunciato acquisto di caccia F-35 dall’America – il passo si annuncia lungo. Soprattutto per carenza di cultura strategica. Dopo decenni di diffuso benessere e stabilità economica in cui la massa della popolazione si cullava nell’illusione della “Grande Svizzera”, placida assuefazione alla “fine della storia”, la scossa bellica ha colto Berlino con la guardia bassa. Quasi più dell’Italia. A differenza del nostro paese, la Germania era però leader di fatto in ambito europeo. Ci si poteva attendere che il governo tedesco indicasse la linea d’emergenza ai soci comunitari. Dopo sei mesi, non se ne vede traccia. Perché Berlino stessa brancola nel buio, all’insegna del “domani si vedrà”.
Nell’eterogenea famiglia euro-atlantica ognuno naviga a vista. Nessuno si attende che Scholz, il cancelliere meno carismatico della storia tedesca, abbia idea della rotta migliore. Altro che locomotiva Germania. I vagoni europei giacciono in binari morti o seguono traiettorie erratiche. Poiché gli Stati Uniti hanno altre priorità, a cominciare dal caos di casa e dalla sfida sempre più calda con la Cina, l’assordante silenzio germanico suona allarmante. Mentre la guerra d’Ucraina non accenna a spegnersi, l’unica “strategia” risulta dalla sua mancanza: rinvio o improvvisazione.
In questo semestre bellico sanzioni e controsanzioni hanno incrinato i muri portanti dell’edificio tedesco. Anzitutto hanno confermato che la faglia dell’Elba resta profonda, visto lo iato fra l’atteggiamento antirusso dominante nella Bundesrepublik originaria e le persistenti corrività verso Mosca nell’opinione pubblica e nei governi di alcuni Stati dell’ex DDR. L’assimilazione fallita degli Ossis al canone Wessi getta più di un’ombra sulla capacità della Germania di produrre quella strategia nazionale cui il ministro degli Esteri Annalena Baerbock si sta dedicando e che certamente consisterà in elenco di vaghi quindi commendevoli propositi. Resta la speranza che nei segreti armadi dei veleni giacciano progetti seri e attuabili.
Poi la gravissima crisi energetica. La guerra è scoppiata alla vigilia dell’inaugurazione del gasdotto Nord Stream 2, deputato raddoppiare il flusso di gas russo verso la Germania via Mar Baltico, anche per aggirare l’Ucraina. Qualcuno a Berlino spera che la guerra finisca presto in modo da attivare quel tubo. Ma fra ricatti di Gazprom e vertiginoso aumento del prezzo del gas, per ora tutto inclina verso la rottura dell’interdipendenza energetica fra Germania e Russia, avviata mezzo secolo fa, in piena guerra fredda, da Brandt e Brežnev. Il modello energetico tedesco dev’essere rivisto da cima a fondo. In tempo di emergenza l’agenda verde può attendere. Ma il conto per l’economia tedesca, e di conseguenza europea, s’annuncia salato. Anche perché Berlino e soci nordici si oppongono al tetto sul prezzo del gas proposto da Draghi.
Ancora, la tensione fra Cina e Stati Uniti e la crisi del modello economico cinese colpiscono la relazione speciale Berlino-Pechino. La Repubblica Popolare è mercato primario per la Germania, ma anche test della bislacca teoria per cui commerciando con un paese autoritario lo apri alla democrazia (Wandel durch Handel). Ovvero conferma che il commercio serve a commerciare, per cambi d’identità altrui servono altre chirurgie, come tedeschi, italiani e giapponesi hanno sperimentato sulla propria pelle.
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