Il Capitano e il Cavaliere nel lettone di Putin
«Wir Schaffen Das». Di fronte alla crisi energetica innescata dalla sporca guerra di Putin, il presidente del Consiglio d’Europa ripesca la storica frase che Angela Merkel pronunciò nell’agosto del 2015 di fronte all’esodo biblico dei siriani causato dalla lurida guerra di Assad: «Ce la faremo». L’analogia e l’apologia merkeliana usata da Charles Michel, nell’intervista al nostro Marco Bresolin, gronda di gramsciano ottimismo della volontà. Più prosaicamente, a poche settimane dall’autunno freddo dei razionamenti elettrici, conviene ripiegare sul pessimismo della ragion popolare del maestro D’Orta: «noi speriamo che ce la caviamo». Finora non ci siamo riusciti. Sergio Mattarella, nel suo messaggio all’élite riunita a Cernobbio, coglie il punto cruciale della nostra debolezza. Il prezzo folle del gas, favorito anche dagli squilibri interni tra gli Stati membri, richiede una risposta comunitaria finalmente all’altezza. I singoli Paesi, da soli, non ce la possono fare: «l’Europa è chiamata, ancora una volta, a compiere un salto in avanti in determinazione politica, integrazione, innovazione». Appunto. Per tornare a Charles Michel: se agiamo uniti, abbiamo gli strumenti per fronteggiare la crisi. Se siamo divisi, e ci muoviamo in ritardo, lo Zar di Mosca vincerà anche la guerra economica, insieme a quella militare.
Indecisa a tutto, lo ha capito anche Ursula Von Der Leyen, che ora si dichiara pronta a forzare i tempi sulla proposta di un tetto al prezzo del gas russo. Sono passati cinque mesi dal vertice del G7 di maggio in cui la segretaria al Tesoro Usa Yellen lanciò la proposta a livello globale e il premier italiano Draghi se la intestò su scala europea. Meglio tardi che mai.
Intanto, prendiamo atto dell’annuncio della Commissione, e nel frattempo accontentiamoci della decisione dei Sette Grandi di procedere con l’introduzione del tetto almeno sul prezzo del petrolio. Vedremo se e come marceranno i due progetti, alla prossima riunione straordinaria dei ministri dell’energia convocata per venerdì prossimo e poi al vertice dei capi di Stato e di governo, in agenda a Praga il 6 e 7 ottobre. Il veto di Orban è sempre in agguato: ha già intralciato il sesto pacchetto di sanzioni alla Russia e fatto slittare al 5 dicembre l’embargo sull’oro nero di Mosca. In questa Europa, purtroppo, non è prigioniera solo la mente: lo è anche il braccio, bloccato dalla camicia di forza del voto all’unanimità.
Dobbiamo dircelo, ancora una volta, con tutta l’onestà di cui siamo capaci: da quel maledetto 24 febbraio, Putin sul gas sta giocando con noi come al gatto col topo. L’uomo cinico e baro che con lo sguardo di ghiaccio si fa il segno della croce davanti al feretro di Gorbaciov non sta solo irridendo l’ultimo homo sovieticus che si illuse di piantare il seme del Bene nell’Impero del Male, come scrive Elena Kostioukovitch. Sta anche dicendo all’Occidente che quel frammento di Storia tardo-novecentesca – la Glasnost, la Perestrojka e la fine della Guerra Fredda – è sepolto per sempre sotto i colpi di cannone dell’artiglieria russa in Ucraina e i giri di manovella del gasdotto North Stream One. Per quanto copiose, le forniture di armi euro-americane a Kiev non allentano la morsa dei tank nemmeno di fronte alla controffensiva di Kherson. Per quanto numerose, le sanzioni industrial-finanziarie non fiaccano la resistenza del popolo russo, allenato dalle tragedie storiche – come suggerisce il Guardian – a «sopportare condizioni estremamente difficili per periodi molto prolungati». Video-collegato con il Forum Ambrosetti, Volodymyr Zelensky ci ricorda non per caso la “sindrome del colibrì”, che muove freneticamente le ali ma resta sempre fermo al suo posto. È quello che sta succedendo. L’Economist lo dice chiaro e forte: «Il susseguirsi delle sanzioni non ha espugnato la Fortezza Russia», e l’idea che un paese con basso debito pubblico e alte riserve di valuta estera subisse un collasso finanziario si è rivelata un’illusione.
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