Il Capitano e il Cavaliere nel lettone di Putin
Le tre leve usate per colpire Putin hanno agito, ma per ora non sono né incisive né definitive. La prima leva è il congelamento dei patrimoni degli oligarchi: secondo WorldCheck, 1.455 esponenti dell’establishment russo non hanno più accesso alle proprietà dislocate nei Paesi occidentali. Nonostante questo, «dei 400 miliardi di dollari di beni detenuti all’estero e teoricamente bloccati ne sono stati effettivamente congelati appena 40»: una goccia nel mare. La seconda leva è quella finanziaria, cioè il divieto per gli investitori internazionali di operare in titoli con 19 banche russe, e l’esclusione dalla rete Swift dei dieci più importanti istituti di credito di Mosca. Neanche queste misure sono riuscite a bloccare la maggior parte dei pagamenti, sia perché dalle sanzioni è esclusa Gazprombank (che gestisce i colossali acquisti di combustibile russo) sia perché si stanno attivando reti di pagamento alternative (come la Cips, versione cinese di Swift). Persino il congelamento della metà delle riserve totali della Banca Centrale Russa, pari a 630 miliardi di dollari, ha avuto un impatto modesto: nell’immediato la contromossa decisa dalla presidente Elvira Nabiullina, il raddoppio dei tassi di interesse, ha fatto ridurre il credito interno, ha frenato la domanda, ha fatto cadere la Russia in recessione e l’ha costretta alla prima grande insolvenza sul debito estero da oltre un secolo. Ma è stata una parentesi: subito dopo il rublo si è ripreso, i tassi sono scesi di nuovo all’8%, e anche se non può attingere alle riserve in dollari e in euro, «la Russia incassa valuta forte ogni giorno grazie alle gigantesche esportazioni di petrolio e gas».
La terza leva è quella commerciale: le sanzioni su petrolio e derivati hanno ridotto l’import di greggio di Usa e Ue, ma gran parte della differenza viene acquistata da Cina e India, sia pure a un prezzo scontato. A causa di questi sconti, secondo Rystad Energy, quest’anno Mosca perderà 85 miliardi di dollari di entrate fiscali, su un totale potenziale di 295 miliardi. Qualche problema in più potrebbe scattare da dicembre, quando entrerà in funzione l’embargo europeo, e soprattutto le compagnie Ue non potranno più assicurare le navi che trasportano greggio dalla Russia. Ma di nuovo: con gli sconti offerti da Putin, ci saranno sempre altri compratori, e «Cina e India potrebbero assicurare da sé i carichi». Dunque, che armi ci restano per sfuggire al racket putiniano? L’Economist assicura che a far più male al Cremlino sono i vincoli sulle nostre esportazioni. Più si inaspriscono le norme sulle licenze già oggi necessarie per vendere prodotti alla Russia, più la sua economia va verso la paralisi. Vale per le forniture militari (droni e laser) e per quelle tecnologiche (microchip, computer, software). La carenza di circuiti elettronici sta rallentando l’emissione di carte Mir, il sistema di pagamenti interno. Senza la componentistica tedesca la leggendaria metropolitana di Mosca si ferma in un mese. Per questo, giustamente, il G7 spera nella svolta: se il tetto al prezzo del petrolio sarà approvato anche in sede Ue, tutte le aziende di qualunque altra nazionalità che continueranno a comprare greggio a cifre superiori non avranno più accesso ai mercati di Stati Uniti ed Europa. Una minaccia seria per i colossi sudafricani, indiani e soprattutto cinesi (a partire da Huawei, che proprio per questo ha già tagliato la sua quota di export russo). Così, in questo gioco al massacro su gas e petrolio, torniamo alla casella di partenza. Adesso tocca all’Unione europea, che deve trovare in fretta un accordo e fare il salto di qualità che finora è mancato. È una sfida che va molto al di là dei due gradi in meno del riscaldamento invernale e delle solite miserie della nostra campagna elettorale, dove Salvini continua a onorare il suo “patto del Metropol” (invocando l’abolizione di tutte le sanzioni) e Berlusconi continua a rinnovare il suo abbraccio mortale con l’amico Vlady (giustificando la criminale mattanza in Ucraina). Non vogliamo credere che Giorgia Meloni, già implicitamente sdoganata da Draghi nel suo “whatever it takes” al Meeting ciellino di Rimini e poi orgogliosamente auto-nominata premier con tanti saluti a Mattarella e all’articolo 92 della Costituzione, voglia davvero isolare l’Italia dal resto d’Europa. Prima facendola accoppiare con l’Ungheria, come piacerebbe al truce Viktor. Poi spingendola sul lettone di Putin, dove la aspettano gaudiosi il Cavaliere e il Capitano.
LA STAMPA
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