Se il federalismo resta uno slogan
di Gian Antonio Stella
Se ne parla da più di vent’anni ma sembra che in realtà non si vada mai oltre le parole
«Quando sei lì fai quello che vuoi. I ministri della Lega le riforme le fanno subito per subito». Era il giugno del 2001 e Umberto Bossi, tornato al governo al fianco di quel Silvio Berlusconi che per anni (dopo averlo buttato giù alla fine del ’94) aveva bollato con tutti gli insulti possibili a partire da «Berluscaz», brindava al giuramento in Quirinale: «Entro l’estate ci sarà la devolution, poi metteremo ordine nello Stato centrale e infine arriverà il federalismo fiscale». Al che Roberto Maroni chiudeva: «E poi balleremo il blues». Risultato? Mai fatte davvero le leggi necessarie, mai fatti i decreti attuativi tranne quello per Roma Capitale poi aggiustato fino a esser depotenziato.
Diciotto anni più tardi lo stesso Maroni, ai primi d’aprile del 2019, con la Lega al governo e il suo successore Matteo Salvini che faceva il gradasso e stava per chiedere i pieni poteri, confidava in un incontro pubblico: «Il federalismo? A una prima lettura sembra che vogliano farla, la legge, ma tra le righe si capisce che non la faranno mai. Non in questa legislatura». Aveva ragione. Del resto era tutto chiaro dal contratto Salvini-Di Maio: mai la parola federalismo, rari cenni al regionalismo e a una «maggiore autonomia». Tanto che a un certo punto lo stesso Luca Zaia, prossimo a stravincere il referendum consultivo del 2017, sbottò: «Roma è sorda da sempre. Sono anni e anni che governi di destra e di sinistra potrebbero risegnare l’Italia sul modello della Germania e non lo fanno. Sul banco degli imputati ci metto tutti».
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