The Queen, il Regno Unito piange Elisabetta
L’ora della gloria arrivò nella notte fra il 5 e il 6 febbraio 1952, quando Giorgio VI morì stroncato dai sei anni di guerra e da sessanta sigarette quotidiane. Lei era in Kenya e aveva passato la notte a Treetops, una casetta di legno su un enorme baobab. Ci salì da principessa e ne scese Regina del Regno Unito, Capo del Commonwealth, Difensore della Fede. Al suo arrivo a Londra, trovò ad attenderla davanti alla scaletta dell’aereo il suo primo primo ministro, sir Winston Churchill. Per preparare l’incoronazione ci volle un anno. Fu celebrata il 2 giugno 1953 nell’abbazia di Westminster, con tutta la pompa millenaria dettata dalla storia ma già con quell’accorto compromesso fra tradizione e innovazione che sarebbe diventato la cifra del regno di Elisabetta. La cerimonia, sei ore, fu trasmessa in diretta dalla Bbc, ma a telecamere spente nei due momenti più sacri, l’Unzione e la Comunione. All’ingresso in chiesa, una delle damigelle che le reggevano il pesantissimo strascico chiese sottovoce a Elisabetta se fosse nervosa: “Certamente, lo sono”, rispose lei. E aggiunse: «Anche se penso che Aureole vincerà il Derby». Ancora e sempre, i cavalli.
Se il suo Regno sia stato “happy and glorious”, come si augurano i sudditi chiedendo a Dio di salvarla, è controverso. Suo nonno vinse la Prima guerra mondiale, suo padre la seconda, lei al massimo quella delle Falklands. I suoi genitori decoravano ammiragli vittoriosi, lei i Beatles, e con questa motivazione: «Per il contributo dato alle esportazioni britanniche». In settant’anni, la Gran Bretagna è cambiata più che nei sette secoli precedenti. Lei però è rimasta sempre quella, impeccabile, inossidabile, infinita. Ha cambiato quindici premier, da Churchill e Lis Truss. È andata a cena soltanto da due, Churchill e Harold Wilson, un laburista che le stava particolarmente simpatico, e ha partecipato ai funerali di altri due, ancora Churchill e Margaret Thatcher. Ha lavorato con tutti, con alcuni meglio, con altri peggio, sempre senza dirlo, ma magari facendolo sapere. Come quando lei e la Thatcher intervennero allo stesso evento con un vestito simile. Da Downing Street arrivò a Palazzo la proposta di coordinarsi. Risposta: «È inutile. Sua Maestà non nota mai come sono vestite le altre signore». Rapporti cattivi anche con Tony Blair, con crisi sfiorata dopo la morte di Diana. In quell’occasione Elisabetta, che era sempre stata accusata di aver anteposto il suo ruolo pubblico ai suoi affetti privati, fu linciata per la ragione opposta, cioè perché voleva preservare i nipoti rimasti orfani dalla curiosità cannibalesca di un’opinione pubblica isteria. Ma alla fine, Regina costituzionale che regna ma non governa, fece quello che voleva il suo primo ministro. A proposito di Diana: a differenza di quel che si pensa, la Regina non è mai intervenuta nelle faccende sentimentali dei suoi figli, se non per limitare i danni quando sono andate a finire male (nel caso dei suoi figli, in tre casi su quattro). Forse perché ha trovato il suo, ha sempre creduto nell’amore.
È stata la roccia su cui poggiava la Nazione, poi è diventata la nonna del mondo. Sempre uguale, con il suo sorrido freddo, i suoi incredibili tailleur in tutte le sfumature del pantone («Se mi vestissi di beige, nessuno mi riconoscerebbe», pare che abbia detto una volta), i cappellini, i cavalli, i corgie, le sessioni parlamentari aperte con la corona in testa, le sfilate in divisa da colonnello e montando all’amazzone, gli innumerevoli nastri tagliati, le infinite strette di mano, le conversazioni surreali. Come nel 2004, quando decorò tre rockstar ignorando ovviamente chi fossero. «Lei che lavoro fa?», chiese a Brian May dei Queen. E lui: «Suono la chitarra». «Anche lei?», proseguì rivolgendosi a Jimmy Page dei Led Zeppellin. «Sì, anch’io». Al terzo della fila, variò la domanda: «Anche lei suona la chitarra?». Ed Eric Clapton, serafico: «Da quarantacinque anni, vostra maestà». In privato, invece, era spiritosa e ironica, felice quando poteva mettersi un foulard in testa e gli stivaloni ai piedi e andare a spasso sotto la pioggia, con i corgie intorno. Nessuno in pubblico l’ha mai vista in una posa sconveniente, uno sbadiglio, le gonne più alte del ginocchio (cucivano dei pesi nell’orlo perché il vento non le sollevasse). Però è stata un’incredibile Bond girl per Daniel Craig nel video girato per l’inaugurazione delle Olimpiadi di Londra, e ha duettato con l’orso Paddington per celebrare il suo Giubileo di platino. Diventata un’icona gobale, durante la pandemia, in uno dei rarissimi discorsi alla Nazione, quattro in tutto a parte quelli di Natale, citò il ritornello di una canzone del tempo di guerra, «We will meet again», ci rivedremo ancora, e ci sentimmo tutti rassicurati, come quando la nonna ci diceva che avremmo passato l’esame. Eravamo talmente abituati a lei che ci sembrerà strano non vederla più. Come le ha detto anche l’orsetto Paddington: «Grazie di tutto, Ma’am».
LA STAMPA
Pages: 1 2