La strada difficile per convincere gli astenuti

di Paolo Mieli

Letta forse teme che Calenda e Conte gli portino via voti. Ma sarebbe una preoccupazione infondata

Si deve dar atto a Enrico Letta d’esser stato di parola. Giurò, all’inizio del suo mandato, che mai avrebbe additato i nemici politici come potenziali eredi di Benito Mussolini. E ha mantenuto la promessa. Anche in questi giorni, malgrado le apparenze: il suo allarme per la Costituzione è cosa ben diversa da quelli fatti risuonare da leader della sinistra nei quindici anni iniziali della cosiddetta Seconda Repubblica. Dal 1994 al 2008, a ogni tornata elettorale, molti predecessori di Letta hanno sostenuto che, qualora avesse vinto il centrodestra, l’Italia sarebbe stata risucchiata da quel «fascismo eterno» o «Ur-fascismo» di cui parlò Umberto Eco in una celebre conferenza nel ’95 alla Columbia University. Talché dalle sue parti, per più di un decennio, si ritenne necessario, anzi doveroso, metter su una coalizione qualsiasi, anche la più eterogenea, pur di far barriera contro le aspirazioni del «cavaliere nero». E, ogni volta, quando si avvicinava il momento di deporre la scheda nell’urna, alcuni intellettuali annunciavano l’intenzione — avesse vinto il «caimano» — di seguire l’esempio di don Sturzo e Salvemini: tutti avrebbero imboccato la via dell’emigrazione (ma poi quasi nessuno lo fece davvero). Trascorsi due o tre quinquenni, i più compresero che tali apprensioni erano probabilmente eccessive. E che rispolverarle in occasione di ogni campagna elettorale poteva rivelarsi controproducente. Così, da una quindicina d’anni, il rito dell’evocazione della dittatura fascista è stato tenuto in vita solo da un’esigua minoranza.

Letta non ha voluto far parte di questa minoranza. Esplicitamente. Ha resistito alla tentazione di approfittare dell’occasione d’oro che si è presentata con la ricorrenza dei cent’anni dalla marcia su Roma. E non ha ritenuto di insistere sulla formazione di Giorgia Meloni nel Fronte della gioventù. Quando, negli ultimi giorni, ha lanciato l’allarme sulla deriva autoritaria, voleva attirare l’attenzione su qualcosa di assai diverso. Voleva attirare l’attenzione sul rischio che, alle elezioni del 25 settembre, il centrodestra conquisti un numero di parlamentari che gli consenta di cambiare la Costituzione senza che la modifica debba poi essere sottoposta a un referendum. Pur sempre un allarme, ma differente da quelli del ’94 e del successivo decennio.

C’è una cosa però che risulta poco chiara. Come mai Letta s’è accorto di questa eventualità solo adesso, a poco più di due settimane dal voto? Sarà stato pure negli anni scorsi affaccendato a Parigi, ma davvero non aveva notato che molti degli attuali dirigenti, parlamentari e candidati del partito di cui è stato richiamato alla guida avevano voluto e votato l’attuale sistema elettorale? E che avevano poi approvato a scatola chiusa la drastica riduzione del numero di senatori e deputati? Davvero tutto ciò è riconducibile al solo Matteo Renzi? La verità è che, quando nel 2019 si formò il governo Conte II, il M5S pose ai piddini delle condizioni e le fece rispettare. Al Pd fu sufficiente prender posto nei ministeri. Si fece promettere, è vero, il varo di un nuovo sistema elettorale, ma poi il partito all’epoca guidato da Nicola Zingaretti fu tutt’altro che testardo nell’esigere il mantenimento di quell’impegno.

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