Politica e futuro, chi spinge (davvero) il paese

di Ferruccio de Bortoli

La legislatura che finisce è stata, per età media degli eletti, la più giovane della storia repubblicana ma non si è distinta per aver pensato molto alle prossime generazioni. A giudicare dai programmi elettorali e dalle dichiarazione dei leader, quella che comincerà dopo il 25 settembre se ne occuperà molto di più. Per la prima volta i diciottenni votano anche per il Senato. L’elettorato passivo è però ancora fermo a 25 anni per la Camera e 40 per il Senato. Sanna Marin, la premier finlandese, ne ha 36.

La società invecchia inesorabilmente, ma il tema demografico è trattato spesso come qualcosa di ineluttabile. Un destino che sembra sfuggire dalle nostre mani. Troppo grande per essere, paradossalmente, una priorità. Meglio rimuovere il problema, dopo tutto riguarda i posteri. Non li conosciamo nemmeno e, parafrasando Oscar Wilde, non hanno fatto nulla per noi. E poi ci sono altre e più urgenti emergenze da affrontare. Subito.

Nel 2050 avremo tre anziani per ogni giovane. Quest’ultimo, un malcapitato, non saprà più come assistere i propri concittadini sempre meno autosufficienti, né potrà garantire loro il sostegno del sistema pensionistico. Non ci rendiamo conto di quanto le scelte del presente riducano progressivamente il grado di libertà e di benessere dei nostri figli e nipoti. Le misure a favore della famiglia e del lavoro femminile sono importantissime. Vitali.

Ma è difficile che si aumenti il tasso di natalità senza più coraggiose politiche per l’immigrazione, sulle quali ovviamente si perdono voti. Dunque, buttiamo la palla o la lattina più in là. Intanto c’è tempo. No, il tempo non c’è più. Un dato estremamente significativo — e proprio per questa ragione ignorato — è stato citato in più occasioni dal ministro della Pubblica Istruzione, Patrizio Bianchi: in soli due anni, la popolazione scolastica è diminuita di 300 mila unità. Ed è come se fosse sparita una città come Catania tutta abitata da studentesse e studenti.

Un dramma nazionale. Al pari dello scandalo di avere il maggior numero di giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano. Primi in Europa in questa disonorevole classifica, mentre siamo agli ultimi posti per percentuale di laureati. Un Paese sempre più anziano tende a ripiegarsi su se stesso, coltiva la paura di perdere il benessere, non la voglia o meglio la fame (come nel Dopoguerra) di accrescerlo. È più sensibile alla stabilità delle protezioni rispetto alla creazione delle opportunità. Le prime sono necessarie se affrontano i bisogni di chi è in difficoltà, dannose se danno l’impressione di una totale prevalenza dei diritti rispetto ai doveri, svincolando la crescita anche personale dallo studio, i sacrifici e persino i fallimenti.

Se poi incoraggiano l’avversione al rischio — tipica di una società anziana — contagiano in questo modo anche le giovani generazioni, diffondendo un clima di pessimismo e di rassegnazione. Il 69 per cento dei giovani tra i 18 e i 35 anni, secondo una ricerca Ipsos, vive ancora nella famiglia d’origine. Le seconde, le opportunità, non devono essere tante se — com’è avvenuto nel 2019, l’anno prima della pandemia — 107 mila italiani se ne sono andati all’estero, di cui 90 mila giovani. Del resto, come testimoniano i dati del ministero del Lavoro, l’Italia è seconda solo alla Romania quanto a povertà lavorativa dei più giovani. Pagati scandalosamente poco. Non si investe sui talenti solo perché ci sono degli incentivi fiscali. È quasi un insulto.

Le misure di sostegno sono necessarie ma non sufficienti. È una questione di mentalità, di visione del futuro. Se si considera l’economia in una condizione statica (ragionamento che stava alla base di quota 100, escono gli anziani ed entrano i giovani) si sottovaluta l’evoluzione delle tipologie di lavoro legate alla digitalizzazione, alla robotica, all’intelligenza artificiale. Quasi come se il posto di lavoro si passasse di padre in figlio e restasse sempre lo stesso. Immutato. Se si attribuisce l’attuale tasso di crescita unicamente al bonus 110 per cento, come fanno i suoi sostenitori, si mostra un totale disinteresse per la straordinaria reazione delle imprese — quelle che stanno su un mercato aperto, concorrenziale — alla pandemia e alla crisi energetica.

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