Generazione Z e astensionismo: chi sono e perché possono cambiare i sondaggi elettorali
Identikit di chi non vota
Attingiamo all’analisi fatta Dario Tuorto in «L’Attimo fuggente: giovani e voto in Italia, tra continuità e cambiamento» edizioni il Mulino (2018). Su 100 che lavorano con un contratto «vero» non votano in 17; su 100 che hanno un contratto atipico non votano in 38. Su 100 che vivono con i genitori e studiano o lavorano, 20 non votano; se non lavorano e non studiano non votano in 27. Dalla elaborazione dati di Itanes, che prende in considerazione il titolo di studio, emerge che alle elezioni del 2018 l’astensionismo tra i più giovani è del 50% tra i non laureati, contro il 37% dei laureati.
I motivi del non voto
Una larghissima fetta di giovani è dunque così distante dalla politica perché è apatica o non ha nessun interesse al di fuori del suo piccolo mondo? Ecco cosa rivela lo studio europeo «No Participation without Representation», che prende in esame un set di dati di 19 Paesi dell’Europa Occidentale e 58 elezioni negli ultimi due decenni (1999-2018). Le ragioni che li tengono lontani dalle urne sono principalmente due. La prima è la penuria di candidati giovani da cui possono sentirsi rappresentati. La seconda è l’assenza nell’agenda politica proposta dei temi che gli stanno più a cuore, come l’ambiente e i diritti civili. Se guardiamo i numeri, nei Parlamenti in cui c’è l’1% di candidati sotto i 30 anni la partecipazione al voto degli under 30 è del 74%, una percentuale che cresce all’81% se la presenza di candidati under 30 è dell’8%, e arriva all’85% con una presenza di candidati giovani del 13%. È evidente che il candidato giovane deve anche essere capace, e inserito in un programma attrattivo. Nel 2018 sono stati eletti nel Parlamento italiano 27 candidati under 30 (il 2,9%), ma la partecipazione al voto del 18-34enni è stata solo del 62%, a dimostrazione del fatto che l’età in sé non è garanzia di risultato.
Generazione Z
Adesso tocca a loro, i nati tra il 1997 e il 2012. Si chiamano Gen Z, e quelli che hanno compiuto i 18 anni e ricevuto la loro prima scheda elettorale sono circa 4,7 milioni. È la generazione che si mobilita contro il riscaldamento climatico con i «Fridays for Future», la difesa dei diritti Lgbtq+ e delle diversità, la condanna del body shaming e contro il bullismo. Ed è anche la generazione che più ha sofferto il lockdown. Improvvisamente i partiti sembrano aver scoperto che esistono. Non è un caso se il leader del Pd Enrico Letta ripete spesso di aver indicato come capolista 4 under 35 (Rachele Scarpa, Cristina Cerroni, Raffaele La Regina, Marco Sarracino). Come non è un caso il recentissimo sbarco di massa dei leader su TikTok. Presentarsi a pochi giorni dalle elezioni sul social dove gli Gen Z si informano, dimostra anche quanto sia maldestra questa attenzione. O meglio, un po’ «cringe», per usare uno dei termini con cui i nostri figli indicano ciò che ritengono imbarazzante. Difficile pensare che questo ammiccamento basti per convincerli ad andare a votare, quando tutta la scena politica si polarizza attorno alle tasse, immigrati e pensioni (per chi già le incassa però, non quelle future). Alle urne ci andranno se si convincono che, in una democrazia, a decidere il loro futuro non è la maggioranza della popolazione, ma la maggioranza di coloro che votano. E che vale la pena di spulciare nei programmi per vedere chi e come tratta i temi che ritengono cruciali. Infine, ci andranno se si persuadono che il voto è un diritto da esercitare, anche con una scheda bianca se non ci si sente rappresentati, poiché è il solo modo pacifico per esprimere e contare il dissenso, senza essere confusi con la categoria dei menefreghisti. E questo vale per tutti gli elettori di tutte le fasce d’età. dataroom@corriere.it
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