Scuola, Rachele Furfaro: “Sistema classista e senza visione, ma lo Stato non ha fatto nulla”
Annalisa Cuzzocrea
«Il tempo sospeso della pandemia poteva essere un’occasione per ripensare l’educazione dei bambini e dei ragazzi. E invece lo Stato, il ministero, il governo, cos’hanno fatto? Niente».
Rachele Furfaro è una donna coraggiosa. Nel 1985 si è inventata, nel cuore ferito di Napoli, le Scuole dalla parte dei bambini. Un modo diverso di fare classe e di fare comunità. Aperto, avvolgente, contaminato da arte, musica, letteratura, aria, mare. E quel progetto ha saputo farlo crescere creando Foqus, sempre dentro ai Quartieri Spagnoli, nel complesso di Montecalvario che li domina dall’alto e che si raggiunge salendo i vicoli stretti che sanno di cinema e calcio, miseria e nobiltà.
Lì ci sono alcune classi della scuola, ma anche start up, laboratori, un centro per malati psichici, una biblioteca, un chiostro magnifico dove Furfaro presenterà stasera il libro che ha voluto dedicare a quest’esperienza, ma soprattutto alla scuola. A quel che è e a quel che potrebbe, anzi, dovrebbe essere.
Coraggiosa anche per il titolo che ha voluto dare al libro uscito il 31 agosto per Feltrinelli. “La buona scuola”. Che non c’entra nulla con la riforma di Matteo Renzi, ma con le pratiche che lei e altri maestri di strada applicano su e giù per l’Italia con l’intento non solo di premiare i migliori – ossessione ormai diffusa – ma di tenere dentro un percorso di formazione bambini e ragazzi che fuori da scuola trovano solo violenza, spaccio, malavita. E infatti, il sottotitolo spiega: “Cambiare le regole per costruire l’uguaglianza”.
Durante il Covid l’apprendimento è diminuito, la dispersione
scolastica è aumentata, com’è possibile che nel frattempo nessuno abbia
pensato a come rimediare?
«Il problema è che non c’è una
visione. Stiamo tornando in classe nelle stesse condizioni e con le
stesse regole che ci sono state negli ultimi decenni, nonostante la
pandemia abbia scoperchiato e spesso aggravato debolezze e criticità che
la scuola si porta dietro da anni di incuria e di disinvestimento. Mica
potremo ancora pensare che teniamo 5 ore al giorno i ragazzi incollati
al banco?».
Come ogni anno, anche questo si apre con decine di migliaia
di cattedre vuote, con orari ridotti, senza alcuna continuità didattica.
Bisogna cominciare da lì?
«Il punto non è solo che questi
insegnanti ci siano o non ci siano, ma è: chi sono? Come stanno? È la
categoria peggio pagata in Europa e questo di certo non attira i
migliori, quindi va bene aumentare gli stipendi come qualcuno in questa
campagna elettorale ha proposto, ma se il riferimento deve essere
europeo a essere adeguato, insieme gli stipendi, è il profilo
professionale dell’insegnante».
Non si fa abbastanza?
«Sa per cosa è stata
prevista la formazione in servizio dei 650 mila docenti? Per il
digitale. L’unica priorità che si riesca a concepire. Eppure durante
tutto il periodo della dad abbiamo visto che gli unici insegnanti capaci
di tenere agganciate le proprie classi sono quelli abituati alle
pratiche di formazione attiva, di didattica cooperativa. Non bisogna
preoccuparsi solo di inserire i precari, negli anni della “buona scuola”
sono entrati 100 mila insegnanti e molti senza un’adeguata formazione.
Dobbiamo avere il coraggio di dire che questo non ha migliorato, ma
peggiorato le condizioni della scuola».
I fondi del Pnrr dovevano andare a coprire – attraverso buona
formazione – alcune aree di fragilità sociale che erano state
identificate. Che fine ha fatto quel progetto?
«Svanito. I
soldi sono stati distribuiti a pioggia e non impiegati in modo efficace
come chiedeva la commissione europea. È la solita vecchia pratica che
avvantaggia sempre chi ha di più, chi ha avuto la fortuna di nascere
dalla parte giusta della società».
Davvero pensa che la scuola italiana – un servizio universale – sia classista. Com’è possibile?
«Perché
subisce le pressioni delle famiglie più influenti e crea scuole di
élite e scuole dove manca tutto. Nascere allo Zen piuttosto che nel
cuore della Palermo bene implica una differenza per tutta la vita. Nella
ricchissima Milano se vai al Manzoni hai una formazione, se vai in un
altro liceo ne hai un’altra. Capita nella stessa scuola di avere sezioni
d’eccellenza e classi ghetto».
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