La politica estera spacca la destra
Marcello Sorgi
Alla vigilia, ormai, delle elezioni del 25 settembre, è destinato ad avere forti ripercussioni interne il voto dell’Europarlamento che ha preso posizione contro Orban e ha spaccato il centrodestra italiano, con Berlusconi nella larga maggioranza che ha stigmatizzato il leader ungherese, e Salvini e Meloni all’opposizione. Il problema è non tanto per il leader leghista, da sempre schierato con quello di Budapest senza ripensamenti, ma per l’aspirante presidente del Consiglio di Fratelli d’Italia, che ha scelto da tempo di vestire l’abito presidenziale, sposando la tradizionale collocazione internazionale atlantista ed europeista dell’Italia. Ma se sui rapporti con gli Usa Meloni ha più volte rassicurato gli osservatori internazionali, sull’Europa, in altre occasioni, ha lasciato intendere di non essere disposta più di tanto ad annacquare le posizioni sovraniste del suo partito. Inoltre, come presidente del gruppo dei Conservatori europei, la leader di FdI difficilmente avrebbe potuto accettare il severo giudizio su Orban naturato a Strasburgo. Anche se è la prima a sapere che questo non sarà senza conseguenze, nell’eventualità di dover assumere la guida del governo dopo il voto.
Dopo una campagna elettorale attraversata fin qui in carrozza, il centrodestra trova così serie difficoltà sulla politica estera. Berlusconi arriva a dire che non entrerebbe in un governo che mettesse in discussione i valori (europeismo, atlantismo) nei quali Forza Italia si riconosce dalle origini. Mentre Salvini, a parte Orban, può tirare un sospiro di sollievo dopo la telefonata tra Draghi e Blinken in cui il segretario di Stato americano ha ribadito che l’Italia non è nell’elenco dei 25 Paesi finanziati da Mosca. Quella stessa telefonata, che ha aperto la strada al viaggio in Usa del presidente del Consiglio, appuntamento conclusivo della sua esperienza a Palazzo Chigi in cui, a giudicare dalle parole del segretario di Stato, sarà ricevuto con tutti gli onori, con un pizzico di malizia si può anche leggere come la seconda puntata della vicenda dei finanziamenti russi che da tre giorni agita la fase finale della campagna elettorale.
Un messaggio rivolto, non solo a Salvini, al momento scagionato da qualsiasi sospetto, ma anche a Meloni, come possibile premier. Se quello di Draghi diventa il governo-modello per le relazioni con gli alleati occidentali, e in particolare con Washington, la leader di Fratelli d’Italia non potrà non tenerne conto. E non comprendere che non bastano generiche rassicurazioni sulla propria fedeltà atlantica per far sì che le relazioni si mantengano buone. Meloni insomma dovrà rispondere per sé e per il suo governo. Un esecutivo in cui, va ricordato, Salvini vorrebbe entrare di nuovo come ministro dell’Interno. Il campanello d’allarme è suonato proprio mentre dentro FdI è in corso una riflessione sul rischio che il ruolo di Salvini in un eventuale governo di centrodestra torni a essere più o meno quello che il leader leghista aveva avuto nell’esecutivo gialloverde: un continuo logoramento, svolto approfittando della piattaforma di visibilità concessa dal Viminale.
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