Le strane idee dei “patrioti” sulle democrazie occidentali

MASSIMO GIANNINI

Sale una marea nera, nel Vecchio Continente. E non è petrolio. Sono le destre, che crescono ovunque. Rompono gli argini in Svezia, ed è il crollo di un mito politico: i “Moderati” conservatori di Ulf Kristersson, insieme ai “Democratici” neo-nazisti soft di Jimmie Akesson, trionfano nella culla della socialdemocrazia e del modello scandinavo, del progressismo di Olof Palme e del capitalismo pasciuto come “pecora da tosare e non ammazzare”, dei diritti civili e della parità di genere, del Workfare e del multiculturalismo. Siamo davvero alla Finis Europae, che tra una settimana esatta potrebbe essere suggellata da un’altra svolta epocale: se i sondaggi non sbagliano, l’Italia sarà il primo Stato membro e fondatore dell’Unione governato da un partito che discende per via diretta dalla destra post-fascista.

Cadono tutti i tabù, nel cuore d’Europa che sanguina per i bombardamenti russi, per i civili ucraini torturati e massacrati, per le fosse comuni di Bucha e di Izyum. Mentre si dispiega il disegno imperiale e criminale del nuovo Zar di Mosca, un kombinat di invasione militare, battaglia energetica e offensiva ibrida, nella Ue si aprono faglie scivolose. Già martoriate dalla crisi globale del 2008, dalla pandemia del 2020 e ora dalla sporca guerra del 2022, le democrazie liberali rischiano lo svuotamento dall’interno, proprio nel momento in cui si fa più duro l’attacco dall’esterno. Putin è in affanno, sorpreso dall’inefficienza della sua logora macchina bellica, dalla tenacia del contrattacco di Zelensky, dalla forza di fuoco prestata dalle difese anglo-americane, dal gelido abbraccio indo-cinese di Samarcanda.

Ma non rinuncia al suo folle progetto eurasiatico, che ha radici nella Grande Madre Russia e linfa vitale nell’odio contro l’Occidente. È la summa dottrinaria di Ivan Il’in (che sognava la «verticale del potere» e la «dittatura democratica, quella della qualità, della responsabilità, del servizio»). Di Danil Danilevskij (che teorizzava «la lotta contro l’Ovest, l’unico mezzo salutare sia per guarire la nostra cultura russa sia per far progredire la simpatia panslava»). Dello stesso Aleksandr Dugin (che considera «la democrazia globale regno dell’Anticristo»).

A questo livello della sfida, e a sette giorni dalle elezioni, servono assai poco i report dell’Intelligence americana che spara nel mucchio, rilanciando un generico allarme sui finanziamenti russi ai partiti europei, senza lo straccio di una sigla o una prova, di un nome o un indizio. Rischiano di produrre l’effetto opposto: un’invasione di campo uguale e contraria a quella dei russi, e dunque una polarizzazione ulteriore del voto italiano. Semmai fa più effetto l’affondo di Draghi, che guardando al passato denuncia i «pupazzi prezzolati» dal Cremlino, ma parlando del presente punta il dito contro «quello che ama i russi alla follia, vuol togliere le sanzioni e parla tutti i giorni di nascosto con Mosca». Se Salvini ha orecchie per intendere, intenda. E colpisce ancora più nel segno il consiglio non richiesto che il premier uscente consegna a chi entrerà a Palazzo Chigi dopo di lui, parlando della condanna del Parlamento di Strasburgo contro l’Ungheria, accusata di non essere più una democrazia, e del voto contrario di Fratelli d’Italia e Lega: «Noi abbiamo una certa visione dell’Europa, difendiamo lo stato di diritto, siamo alleati di Germania e Francia, ma mi chiedo, uno come se li sceglie i partner?». Se Meloni ha uno specchio per guardarsi, si guardi.

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