Le strane idee dei “patrioti” sulle democrazie occidentali

Lo sappiamo: gli italiani che andranno a votare lo faranno pensando a tutt’altro. Le bollette del gas e il prezzo del latte, la scuola dei figli e l’affitto di casa, le cartelle esattoriali e il lavoro povero. Ma nell’urna c’è anche questa questione, e non è meno importante: quale idea della democrazia hanno, le “nuove” destre che vanno al potere in Europa? E anche se disturba parecchio, poi ce n’è anche un’altra, altrettanto rilevante: quale giudizio danno del fascismo, di cui volenti o nolenti “portano l’eredità”, come ha titolato in prima pagina Le Monde giovedì scorso? Alla seconda domanda Meloni risponde per le spicce: «Io nel Ventennio non c’ero, sono nata qualche decennio più tardi, il fascismo lo abbiamo consegnato ai libri di storia». Troppo facile, Sorella d’Italia. Il dato anagrafico non ti esenta dal giudizio politico (come capì opportunamente Gianfranco Fini). E la Storia non è «una mostra permanente dell’antiquariato» (come ha scritto giustamente Giovanni De Luna). Ma è la risposta alla prima domanda, che in questo momento è più interessante e per certi versi inquietante. «Orban ha vinto le elezioni, più volte e con ampio margine», dunque «l’Ungheria è una democrazia» perché «la sovranità appartiene al popolo». Detta così, un po’ brutalmente, non fa una piega: sta scritto persino nell’articolo uno della nostra Costituzione. In realtà il problema è molto più complesso. La tesi «l’hanno votato, quindi è democratico», riflette un vizio d’origine del potere populista di ogni tempo. Nel Novecento questo vizio ha generato le dittature (anche Mussolini e Hitler furono eletti dai rispettivi Parlamenti). Nell’era contemporanea, questo vizio ha prodotto le “democrature” (da Putin a Erdogan, da Lukashenko allo stesso Orban). Quando il leader è scelto dal popolo, e solo dal popolo dichiara di trarre sovranità e legittimazione, il suo potere non conosce più limiti. Attraverso di lui va al governo il popolo stesso, che dunque non ha più bisogno di essere protetto dalla sua stessa volontà (lo scriveva già Stuart Mill nel 1859, nel saggio “Sulla libertà”). È qui, soprattutto nelle fasi emergenziali, che nascono le rotture e le possibili torsioni delle regole: la democrazia cambia natura, diventa dispotica. Il tempo lungo della crisi, nel nuovo millennio, ha causato ovunque disuguaglianza e povertà economica, marginalità sociale ed esclusione politica, instabilità e ingovernabilità. Anche le democrazie hanno cominciato a girare a vuoto, a non saper più soddisfare i bisogni della gente. È una deriva che noi italiani abbiamo già conosciuto nella stagione del berlusconismo, con l’Unto del Signore che pretendeva di trovare nell’urna la “costituzionalizzazione” delle sue anomalie (il conflitto di interessi) e la soluzione di tutte le sue traversie (le condanne penali). In fondo anche il Salvini del Papeete e dei «pieni poteri» è figlio di quel vizio: il mandato che mi avete riconosciuto non basta più, è ora di forzare il sistema. Ed è qui, in questa potenziale frattura, che l’Occidente ha prodotto nei secoli i suoi anticorpi, dotandosi appunto delle costituzioni, che garantiscono diritti inalienabili ai cittadini e impongono limiti ai poteri dei governi. Lo fecero i baroni inglesi nel 1215, a Runnymede, obbligando il Re ad accettare vincoli alla sua autorità. Lo ribadirono le colonie americane nel 1638, a Hartford, promulgando il primo Rule of Law scritto nella modernità. Dalla Magna Charta ai Fundamental Orders del Connecticut, dalla Costituzione americana del 1789 all’Atto finale di Helsinki: l’Atlante Occidentale è forgiato nel “costituzionalismo”, che fa una democrazia liberale diversa da tutte le altre, perché prevede non solo elezioni libere e regolari, ma anche il riconoscimento dell’autorità della legge, la separazione e il bilanciamento dei poteri, la tutela dei diritti di associazione e di espressione, la difesa della libertà religiosa e sessuale.

Per questo è inaccettabile la replica di Meloni sul caso Ungheria. Lo è sul piano culturale, ma anche sul piano materiale. A parole, finora l’aspirante Prima Ministra ha provato a rassicurare l’establishment interno e internazionale, giurando fedeltà eterna all’europeismo e all’atlantismo. Nei fatti, il suo primo atto concreto è stato un voto contrario all’Europa liberaldemocratica e favorevole all’autocrazia ungherese. Se non c’è piena identità, c’è allora cieca neutralità di fronte alle gravi ferite che Orban sta infliggendo allo stato di diritto. E non è tutto. Da questa destra che si professa “di governo” non si può pretendere soltanto l’approvazione convinta alla resistenza ucraina e l’adesione ancora più convinta alla Nato. Questo può forse bastare all’America, non all’Europa. Fratelli d’Italia è solo un partito filo-atlantico, che quindi si limita a riconoscere la necessità di un posizionamento geostrategico? O è ormai anche una forza compiutamente occidentale, che dunque si riconosce in una comunità di destino, nei principi del costituzionalismo e nei valori del liberalismo? È un nodo che va sciolto. Il pericolo, altrimenti, è che l’onda nero-verde-azzurra spinga il Paese sulle secche della “polacchizzazione”, come l’ha chiamata Enrico Letta nell’intervista a Annalisa Cuzzocrea di venerdì scorso. Cioè lo faccia somigliare alla Polonia del trumpista-oscurantista Morawieczi: la nazione più “amerikana” in politica estera, ma la meno europea in politica interna. Non è questo che vogliamo, per l’Italia che verrà.

LA STAMPA

Rating 3.00 out of 5

Pages: 1 2


No Comments so far.

Leave a Reply

Marquee Powered By Know How Media.