Il premier vola negli Usa: darà rassicurazioni all’Onu sull’ambiguità di Lega e FdI
ALESSANDRO BARBERA
ROMA. Non è ancora l’ultimo viaggio di Stato, ma quello che inizia domani a New York resterà il più lungo dell’esperienza da premier. Per sottolineare l’intaccata fedeltà di Mario Draghi all’Alleanza atlantica e al rapporto con gli americani, potrebbe bastare l’agenda dei quattro giorni di New York. Il discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’incontro con i giovani di «Youth4Climate», la cena per ricevere il «World Statesman Award», un’agenda privata di cui per ora non si sa nulla. Poi ci sono le coincidenze: la visita di Draghi coincide con l’ultima settimana di campagna elettorale. Dopo le dimissioni l’ex banchiere centrale aveva deciso di rinunciare alla trasferta, e di svolgere un intervento a distanza. Poi i piani sono cambiati, e anche questo non è un dettaglio irrilevante.
La cabala dell’agenda Onu (complicata dai funerali della Regina a Londra) ha voluto che Draghi parli all’Onu martedì all’ora di cena, quando in Italia sarà notte fonda, qualche ora dopo Emmanuel Macron e preceduto da Olaf Scholz. Il discorso del premier promette di costituire l’eredità di politica estera del governo che verrà. Non ci saranno gli accenti polemici della conferenza stampa di giovedì, ma Draghi sarà fermo nel ribadire la linea avuta fin qui, nonostante i distinguo dei due partiti che l’hanno sostenuto fino all’inizio della campagna elettorale, Lega e Cinque Stelle. Dirà che i fatti stanno dando ragione alla fermezza verso Mosca, dell’efficacia delle sanzioni, e dell’invio delle armi a Kiev. E ancora l’importanza dell’accordo sul grano ucraino, essenziale per scongiurare la crisi alimentare. Sarà un discorso in cui, fra le righe, Draghi cercherà di rassicurare sulle intenzioni della nuova maggioranza, nonostante il voto a dir poco ambiguo di Lega e Fratelli d’Italia in Europa a sostegno dell’Ungheria di Orban.
Nell’emiciclo del Palazzo di vetro ad ascoltarlo ci saranno i ministri degli Esteri di Mosca e Pechino, Sergej Lavrov e Wang Yi. Poche ore dopo, giovedì, si riunirà il Consiglio di sicurezza per discutere della crisi ucraina, e per la prima volta dall’inizio della guerra il russo e il cinese si incontreranno faccia a faccia con il segretario di Stato americano Antony Blinken e il ministro degli Esteri di Kiev Dmytro Kuleba.
Draghi ha passato gran parte della giornata di ieri nella casa di Città della Pieve per limare la prima bozza del discorso preparato dallo staff. Gli attacchi dei partiti per i toni poco diplomatici dell’ultimo incontro coi giornalisti non lo preoccupano. Se c’è un aspetto dell’esperienza a Palazzo Chigi su cui non ha il dubbio di errori, è sulla politica estera. A suo avviso lo dimostrano i fatti sul campo, la riconquista ucraina di alcune delle zone occupate dall’esercito russo, le ultime novità diplomatiche. Il premier è rimasto colpito dall’incontro di questa settimana a Samarcanda di Putin con i due (fin qui) alleati più influenti, Cina e India. Un vertice che ha svelato la debolezza diplomatica dello Zar. Né Xi, né il premier indiano Modi hanno prestato il fianco alla strategia aggressiva di Mosca verso l’ex repubblica sovietica. Dal sostegno «senza limiti» dello scorso febbraio, Modi è passato alla richiesta di fermare le armi: «Non è tempo di guerra». Pechino e Delhi confermano di essere mossi da puro opportunismo: erano e saranno due acquirenti a buon mercato del gas e del petrolio che l’Occidente non acquista più.
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