I veleni incrociati di una destra divisa

Alessandro de Angelis

L’estate della legittimazione di Giorgia Meloni – armi all’Ucraina e ammiccamento a Draghi per comprare presentabilità occidentale – si è già spenta nell’autunno ungherese di Orban. Innanzitutto nella sua difesa in base all’assunto che ciò che è eletto dal popolo è sempre giusto, anche se nega lo Stato di diritto. Ma anche nella sua fascinazione, con la dirompente proposta di approfondire il rapporto tra diritto italiano e diritto europeo che, tradotto, significa, in coerenza con i disegni di legge già presentatati in questa legislatura, sancire la preminenza del secondo sul primo. È un modello che da un lato riduce l’accettazione dell’Occidente a una dimensione esclusivamente militare, dall’altro produce uno slittamento politico-valoriale sul terreno della costruzione europea come l’abbiamo conosciuta finora. Insomma, anche il sottile velo dell’ipocrisia si è squarciato, rivelando che nessun photoshop riesce ad occultare i veri contorni dell’identità. E, al tempo stesso, scoperchiando le profonde linee di frattura del centrodestra – ardito chiamarla coalizione – sui fondamentali, non sui dettagli. Questa impostazione che, come si è visto nel voto al Parlamento europeo, rappresenta un humus condiviso con Salvini, è però foriera di tensioni con Silvio Berlusconi che, nonostante abbia abdicato da tempo al ruolo di contrappeso moderato, non può permettersi (lo ha dichiarato) di far parte di un governo che non abbia l’europeismo nel Dna. Ma se la grande madre Ungheria può rappresentare un idem sentire tra i due campioni del sovranismo nostrano, il pratone di Pontida è l’altra linea di faglia del possibile governo (che verrà?). Il film di una Lega cattiva e di una Lega buona, pronta a commissariare i cattivi dopo il voto (speranza della Meloni), è già finito nell’atto di sottomissione dei governatori che firmano l’agenda di Salvini. Un giuramento di fedeltà, non proprio un annuncio di sfida, davanti a un popolo che li accuserebbe di tradimento. «La Lega sono io», è il messaggio del leader leghista, interno (ai suoi), ed esterno (alla Meloni). Quel messaggio e quella plateale prova di forza di un partito che si mostra del tutto salvinizzato, detti in prosa, significano: Viminale. Parola che reca in sé, per la leader di Fdi, lo spettro del Conte 1, cioè di una complicata coabitazione.

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