Giorgia contro Giorgia

FABIO MARTINI

ROMA. Nel pendolarismo ormai quotidiano di Giorgia Meloni c’è qualcosa di nuovo, anzi di antico. Nelle ultime settimane le sue oscillazioni hanno assunto una cadenza regolare, quasi fossero scandite da un metronomo. Un giorno la leader dei Fratelli d’Italia rassicura in modo impegnativo Bruxelles (no allo «scostamento di bilancio» a Roma) e il giorno dopo avverte l’Europa che «la pacchia è finita». Nelle ultime ore Meloni ha sostenuto che «il discorso di Putin tradisce grandissima difficoltà, debolezza e disperazione», ma nei giorni scorsi aveva difeso il migliore amico dell’autocrate russo nella Ue, Viktor Orban: «È un signore che ha vinto le elezioni più volte». E qualche ora dopo, a chi obiettava che pure Putin e Mussolini hanno vinto elezioni, Meloni ha corretto: «Io non faccio quello che dice Orban, io non faccio quello che dice nessuno».

È curioso: proprio in vista del traguardo, accanto ad un fisiologico realismo governista (approccio nuovo per una campionessa dell’opposizione) è come se fosse affiorata in Meloni una doppia anima. È come se Meloni avvertisse un richiamo della foresta, qualcosa che affonda in radici profonde: nella cultura del tutto originale della destra italiana, per mezzo secolo rimasta ai margini del sistema politico. Elettori, militanti, dirigenti dell’ Msi e di An hanno vissuto a lungo una marginalità da “stranieri in patria”, che ha alimentato due sentimenti: l’ansia di legittimazione, ma anche una forte reattività verso tutti coloro che, a sinistra, volevano spiegare cosa fosse “politicamente corretto”.

La romana Giorgia Meloni, una giovinezza trascorsa nel quartiere rosso della Garbatella, ha vissuto la coda di quella stagione. Tempi oggi inimmaginabili. Racconta Bruno Tabacci, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e che nel 1992 era deputato Dc: «In quegli anni, per dirne solo una, era sconveniente andare alla buvette di Montecitorio e prendersi un caffè con un deputato missino». Racconta Federico Gennaccari, giornalista-editore della destra italiana: «Negli anni Settanta e Ottanta esistevano zone di Roma che i militanti della destra non potevano letteralmente attraversare, da Trastevere a Campo dei Fiori. O ci andavi di notte fonda o, come è capitato a qualcuno, quelle strade hai scoperto come erano fatte soltanto negli anni Novanta. Si viveva in un ghetto dal quale tentavi di uscire ma non era facile».

Nella forte reattività di Meloni e nelle sue oscillazioni quanto pesa quella antica cultura politica? Per lo storico Alessandro Campi «sì, c’è un tratto psicologico di gruppo, quello di un mondo che per decenni si è sentito sotto esame e sotto tutela, in una costante prova di legittimità democratica, come se si dovesse sempre scusare per i “bisnonni”. Una marginalità a volte cercata in passato ma che può spiegare una certa, latente reattività di queste settimane. Ma naturalmente l’alterità – tipica della tradizione dell’Msi – e al tempo stesso i numerosi anni di opposizione dei Fratelli d’Italia sono due fattori che hanno aiutato la loro ascesa elettorale».

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