Voto e crescita, un’idea sbagliata del sud

di Antonio Polito

La calata finale dei leader al Sud sa tanto di corsa all’accaparramento. È come se i partiti considerassero ormai esauriti i serbatoi del «voto di opinione» al Nord, e volessero negli ultimi giorni di campagna elettorale raschiare il barile del «voto di scambio», convinti di trovarlo dal Garigliano in giù. In questo modo, svelando l’idea «stracciona» che hanno del Mezzogiorno, riflettono allo specchio se stessi.

È da molti anni, infatti, che nelle competizioni elettorali non si confrontano più idee per il Paese, ma si offrono baratti a categorie e gruppi sociali. Al Sud, sia cinque anni fa sia oggi, il reddito di cittadinanza è stato usato dai Cinquestelle come il surrogato di una politica meridionalista che non c’è. Ma non è che la dentiera gratis per gli anziani o la dote di diecimila euro per i diciottenni siano da meno, in quanto a «do ut des». La differenza sta nel fatto che gli anziani e i diciottenni sono diffusi su tutto il territorio nazionale, mentre i percettori del reddito di cittadinanza sono per due terzi concentrati al Mezzogiorno. Ma questo avviene perché è lì che le dimensioni della crisi sociale e della disoccupazione cronica sono maggiori e più gravi.

Non c’è dunque davvero da meravigliarsi se molti elettori meridionali mostrano di gradire questa forma di assistenza al punto da gonfiare i consensi del M5S, il partito che l’ha introdotta e che ora la difende a spada tratta. Più che un voto di scambio, è un voto di convenienza. E quando le idee dei partiti finiscono, alla gente non resta che badare alla convenienza.

Il problema però è che in questo modo i politici si approfittano dei guasti sociali per costruire consenso. Il loro compito sarebbe infatti quello di rimuovere le cause del bisogno, non solo di alleviarlo. Dare pesci a chi ha fame è importante, in tutti i Paesi europei c’è una qualche forma di integrazione dei redditi troppo bassi. Ma ancor più importante sarebbe insegnare alla gente a pescare, fornendo loro le competenze e le attrezzature per uscire dalla spirale perversa della dipendenza, che uccide la dignità degli uomini e soffoca le speranze di riscatto anche più del bisogno. Invece l’assistenzialismo senza se e senza ma perpetua la dipendenza dallo Stato erogatore.

Si chiama la «trappola della povertà», ed è ben nota a chi ha studiato i «welfare state» del Nord Europa, dove da molto tempo prima che in Italia esistono forme di trasferimenti diretti per sostenere i meno abbienti. Si cade in questa trappola quando l’incentivo a vivere di sussidi è maggiore dell’incentivo al lavoro. Una generazione di giovani meridionali sta conoscendo questo fenomeno, diventando sempre meno «occupabile»: i bassi salari spingono a preferire il reddito di cittadinanza, o ad accettare il ricatto del lavoro nero pur di non perdere il sussidio. Il risultato è che così dalla povertà non si esce, ma anzi si impoverisce anche la società nel suo complesso, che produce meno ricchezza di quanta potrebbe, e deve destinare più risorse a chi resta indietro.

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