Vittoria storica tra mille incognite
Marcello Sorgi
Benché annunciata da tempo, la vittoria di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia è un fatto assolutamente nuovo nella lunga storia repubblicana che ne ha viste di ogni tipo. In un panorama più frammentato, e con un’affluenza bassissima, specie al Sud, vince, a scapito dei suoi stessi alleati, la destra-destra che affonda le sue radici nella lunga emarginazione dalla Prima Repubblica del Msi almirantiano, nato dalle ceneri di quella di Salò, fuori dall’arco costituzionale dei partiti che avevano messo a fondamento della Carta l’antifascismo.
Che questo accada a un mese dal centenario della Marcia su Roma e dell’inizio del ventennio di dittatura di Mussolini è una coincidenza: gli italiani che hanno votato Meloni non lo hanno fatto per nostalgia del Fascismo o perché la considerano fascista, cosa tra l’altro dubbia. L’unica analogia con la lontana esperienza del Duce è che anche lei arriva alla guida del governo – e si vedrà se e come, dato che adesso cominciano i suoi giorni più difficili – alla fine di una maratona solitaria contro tutto e tutti, compresi Salvini, a cui ha divorato metà dei voti, Berlusconi, che ha tenuto, e Draghi, verso il quale invece ha svolto un’opposizione attenta, calibrata e intelligente.
La sua strada verso Palazzo Chigi è segnata, ma non completamente scontata. Dipenderà da una serie di fattori che oggi devono ancora precisarsi e rassodarsi, al di là della probabilità, che sembra accertata, che il centrodestra abbia la maggioranza in entrambe le Camere: le dimensioni precise della vittoria in termini di seggi, soprattutto al Senato; le percentuali finali di Salvini e Berlusconi, tramortiti dal passaggio del carrarmato Giorgia; il peso che in una situazione instabile potrebbero avere i centristi di Lupi, Toti e Brugnaro, eletti in gran parte nei collegi messi generosamente a disposizione da Meloni, ma decisi da subito a riprendersi la loro autonomia; l’attribuzione definitiva dei collegi più contesi. Ciò che invece spinge verso la guida del governo questa giovane donna romana – nata nel quartiere borghese della Camilluccia, abbandonata da un padre commercialista di sinistra, cresciuta nella borgata “rossa” della Garbatella e forse per reazione a tutto questo diventata ragazza di estrema destra – è la sua fortissima volontà, in grado di farle superare tutte le sfide che si preparano per lei dopo la vittoria. A cominciare dal pregiudizio europeo – ma non americano – nei suoi confronti, a cui hanno dato voce la presidente della Commissione Von der Leyen, e molti giornali, in testa l’autorevole “Economist” che giudicò per primo Berlusconi incapace di governare l’Italia. E più che la Costituzione e il presidenzialismo sbandierato tra le polemiche in campagna elettorale, saranno le reazioni delle istituzioni di Bruxelles e dei mercati finanziari internazionali, oltre a una situazione sociale che potrebbe diventare esplosiva, primi ostacoli che Meloni, una volta giunta al governo, dovrebbe superare.
Sul fronte della sconfitta – annunciata, anche questa – del centrosinistra, non c’è neppure bisogno di dire che per il principale avversario della Meloni, Letta, – che inutilmente aveva cercato la competizione a due, diretta, con la vincitrice, nell’illusione di poter almeno ottenere la posizione di primo partito – si apre la malinconica via dell’uscita di scena, lenta o rapida che sarà. Forse perfino del ritorno all’insegnamento a Parigi, dal quale era stato bruscamente richiamato e nel quale aveva certo avuto più soddisfazioni. Per giustificarsi, Letta dirà di esser stato lasciato solo: dai suoi alleati con cui molto, ma non abbastanza, aveva fatto per costruire la coalizione che sarebbe servita per competere seriamente. E dai suoi amici e compagni di partito, defilatisi uno dopo l’altro in attesa del congresso che nominerà l’ennesimo successore alla segreteria del Pd. Se il partito continuerà a cercare, non una vera strategia comune e una strada per la ricostruzione, come ha suggerito Prodi, l’uomo delle due vittorie “storiche” del 1996 e del 2006, ma un modo per perpetuare e garantire il gruppo dirigente delle correnti, finirà con l’avviarsi verso una dissoluzione simile a quella dei socialisti francesi.
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