La stagione della nuova responsabilità
«Oggi abbiamo scritto la Storia». Onusta di gloria, Giorgia Meloni scandisce il Tempo Nuovo che comincia con un’epica degna del Cinegiornale Luce. E sia chiaro: non c’è ironia, in questa constatazione. Quello che scrive sui social la prima donna che porterà la Destra post-fascista al governo del Paese è la pura verità. Come ha detto Charles Kupchan al nostro giornale, la sua vittoria è in ogni senso una “svolta epocale” per l’Italia, per l’Europa, per l’Occidente. Ma a differenza di quel che sostiene il grande politologo americano, il pendolo della Storia non “è tornato” nel campo dei populisti, in virtù della somma trasversale dei voti di Fratelli d’Italia, Lega e Cinque Stelle. In realtà il pendolo sempre lì è rimasto, essendo il trionfo meloniano la terza fase evolutiva di un ciclo populista e sovranista iniziato col berlusconismo e poi sfociato nel grillo-leghismo.
Oggi, come l’Angelo Nuovo di Paul Klee e Walter Benjamin, Meloni ha le ali spiegate al futuro, benché i vecchi cumuli di rovine non si rassegnino a liberarla dal passato. Ma è proprio di questo che adesso c’è bisogno. Se davvero vuole scriverne un pezzo importante, la Sorella d’Italia deve chiudere in fretta e senza rimuoverli i conti con la Storia, che come insegnava Croce è per definizione “sempre contemporanea”. E poi provare davvero, come dice, a curare le ferite antiche e moderne del Paese. A farlo, come promette, “per tutti gli italiani, per unire questo popolo”.
D’ora in avanti noi vogliamo prenderla in parola. Gli italiani l’hanno votata, conferendole l’onore e l’onere di guidare il prossimo governo, se il Presidente della Repubblica deciderà di conseguenza. La legittimità democratica di questa scelta è netta e indiscutibile con buona pace di qualche filosofo francese.
Quello che potremmo chiamare “Fattore F” come Fascismo resta ancora idealmente irrisolto dentro l’autobiografia della nazione, in attesa che chi discende da quella tragedia novecentesca lo sciolga con i fatti e gli atti. Tuttavia, politicamente, dobbiamo riconoscere che quella pregiudiziale è già caduta dentro l’urna, domenica scorsa.
E a prescindere dalla natura e dalla postura del prossimo esecutivo, sul quale continuiamo a mantenere le nostre riserve, siamo tutti convinti che sia un bene, come lei stessa sottolinea, che l’indicazione di “un governo di centrodestra a guida Fratelli d’Italia” esca finalmente proprio da quell’urna. Complice l’insipienza dei partiti e l’incongruenza delle leggi elettorali, e pur nel rispetto delle regole di un Repubblica parlamentare, sono undici anni che i governi non riflettono fino in fondo la volontà popolare. Ora non è più così, e questo oggettivamente può dare più forza al governo che verrà.
Ci sarebbe molto da dire sugli sconfitti di questa tornata elettorale, che ha spaccato in due la vicenda repubblicana. Dal cupio dissolvi della fu Lega Nazionale di Capitan Salvini, che ha bruciato 7 milioni di voti in due anni, all’harakiri definitivo del Pd di Letta, ormai poco più che un “partito fallito” vittima della “catastrofe mentale” di cui parla Massimo Cacciari. Ma conviene concentrare l’attenzione sui vincitori. Il merito di Meloni è quello di aver condotto una lunga traversata nel deserto, portando FdI dall’1,9 per cento delle elezioni del 2012 al 26 per cento di oggi. Di aver trasformato Fratelli d’Italia da piccola formazione di una destra radicale, resistenziale e assistenziale, a grande partito interclassista, per cui oggi vota il 25 per cento dei lavoratori autonomi, il 21 per cento degli impiegati, il 22 per cento degli operai, il 19 per cento dei disoccupati.
Di aver acceso la fiamma tricolore non più solo nelle sedi romane dell’extra-parlamentarismo missino, ma anche nelle aree urbane del Nord industriale, dove oggi conquista il doppio dei voti della Lega rubandoglieli persino nei suoi feudi del Lombardo-Veneto. Di aver capitalizzato al meglio una cospicua rendita di opposizione in quest’ultima disgraziata legislatura, chiamandosi fuori dall’orgia trasformistica che ha generato solo creature innaturali: prima l’accozzaglia gialloverde, poi l’ammucchiata giallorossa, e infine la pseudo unità nazionale, a sostegno dell’ennesimo governo tecnico.
In una fase caotica in cui non un solo leader politico può dire di non essersi rimangiato un’idea, una proposta o una promessa, Meloni è rimasta coerente con se stessa. Sposando le peggiori destre conservatrici e xenofobe d’Europa ma senza accodarsi ai “pupazzi prezzolati” di Putin. Vellicando i peggiori istinti del bestiario No-Vax ma senza esagerare con lo “sfascismo sanitario”. Contrastando l’Agenda Draghi ma cercandone la tutela da Lord Protettore presso la business community e le cancellerie internazionali. L’operazione è riuscita, per lo più a danno dei suoi alleati Salvini e Berlusconi, ai quali ha scippato qualcosa come 5 milioni di voti. E quindi è logico e giusto che la premier in pectore ringrazi gli italiani “che ci hanno creduto”, quelli “che non hanno mollato”.
Ma adesso questi toni non servono e non valgono più. Soprattutto nella misura in cui riflettono una vecchia attitudine da partitino che custodisce l’eredità di Almirante, tenendone ancora vivi i vizi e i vezzi. Non serve il vittimismo al contrario, su “una campagna elettorale non bella, violenta e aggressiva” e sui cittadini che “non hanno ceduto a menzogne e mistificazioni”, come se FdI non fosse anche il partito della destra dura e pura amica di Vox ma una congrega di fraticelli francescani. Non serve lo spirito di rivalsa postumo, su “questa notte che significa tante cose, orgoglio e riscatto, lacrime e ricordi”, come se adesso i ragazzi dei movimenti studenteschi missini che negli anni ‘70 e ’80 praticavano violenza a piene mani, diventati adulti, avessero ancora un deposito di rabbia da svuotare. Non serve evocare la categoria della fedeltà e del tradimento, come si faceva nell’epoca dell’ubriacatura ideologica degli “opposti estremismi”, rivolgendosi all’Italia “che ha scelto noi e noi non la tradiremo”.
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