Meloni non cede su Salvini: “Non lo voglio, è vicino a Putin”

Ilario Lombardo, Francesco Olivo

Un governo di pacificazione. È questo il piano di Giorgia Meloni. Chiudere i conti con l’opposizione, con i sospetti dei partner internazionali, ma anche con gli alleati. Cercare una via di mediazione per iniziare una nuova stagione di dialogo, che liberi i rapporti dalle scorie del passato e serva a «costruire una nuova Italia». Le prime mosse della premier in pectore vanno in questa direzione: dall’idea di concedere all’opposizione la presidenza di uno dei due rami del Parlamento, alle rassicurazioni da inviare all’estero sulla collocazione geopolitica del Paese. Il nodo, lo è da mesi d’altronde, resta il ruolo da assegnare a Matteo Salvini, un macigno che è pesato sin dai primi giorni della campagna elettorale nella quale il leader leghista ha imposto la sua candidatura al Viminale. Ma i falchi filoatlantici di Fratelli d’Italia stanno facendo una pressione opposta, chiedendo a Meloni di lasciare fuori dall’esecutivo l’ex ministro dell’Interno. La presenza di Salvini, secondo questa tesi, sarebbe troppo ingombrante a causa dei suoi rapporti con la Russia e con il partito di Putin, che non si sono interrotti nemmeno dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. «Come ci si può presentare a Washington con un ministro di peso che voleva farsi comprare dall’ambasciata russa i voli per Mosca?» si chiede uno dei dirigenti che ha mandato un messaggio chiaro a Meloni: «Deve restare fuori». La leader di FdI conosce i rischi di imbarcare il suo alleato nell’esecutivo, ma difficilmente troverà argomenti per lasciare fuori il leader di un partito con cento parlamentari. Le voci ostili sono arrivate anche a Milano e non è un caso che il Consiglio federale della Lega, riunito in via Bellerio, che pure ha messo in discussione l’operato di Salvini, ne abbia blindato aspirazioni: «Per il segretario serve un ministero di primo piano». L’obiettivo resta il Viminale, ma in ogni caso «Matteo deve stare al governo», ripete il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari.

Ieri sono partite le trattative, Antonio Tajani arriva in via della Scrofa nel primo pomeriggio, la sede di Fratelli d’Italia ospita il primo incontro tra alleati dopo la vittoria, non è un vertice, la Lega è impegnata nelle stesse ore con un consiglio federale delicatissimo. Non c’è tempo per i convenevoli, si va subito al sodo, il governo si sta formando, l’ex presidente del parlamento europeo ha una serie di richieste da mettere sul tavolo. La prima è quella di avere pari dignità rispetto alla Lega, ovvero lo stesso numero di ministeri. La seconda coglie più di sorpresa Meloni: l’ipotesi di nominare due vicepremier che la possano affiancare. Uno, sempre nello schema che si è configurato ieri, sarebbe Salvini e l’altro lo stesso Tajani. Tenere i leader della maggioranza a Palazzo Chigi avrebbe dei vantaggi, ovvero saldare il destino del governo a quello dei partiti, ma anche moltissimi rischi, come già visto nell’esperienza del governo gialloverde. La prima partita, in ordine cronologico, da risolvere è quella della presidenza delle Camere. Meloni è intenzionata a concederne una all’opposizione, con l’obiettivo di mandare un messaggio di pacificazione dopo una campagna elettorale molto dura. L’idea è stata apprezzata dal Pd, ma non è piaciuta a Lega e Forza Italia, intenzionate a occupare le poltrone della seconda e terza carica dello Stato. In pista per Palazzo Madama ci sarebbe il leghista Roberto Calderoli, attuale vicepresidente, e per Montecitorio un forzista che potrebbe essere lo stesso Tajani.

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