La sinistra che dimentica le disuguaglianze
FRANCESCA MANNOCCHI
Ormai siamo tutti così: personaggi drammatici che si manifestano solo comicamente [Mario a Giovanna – La Terrazza, Ettore Scola]
La politica, come le storie d’amore, è un equilibrio di fuochi e di tempi. Così è pure per il Pd, la metà della coppia che entra in casa e resta sbigottita sulla porta a guardare le stanze vuote, i bagagli portati via, il bigliettino lasciato appeso all’ingresso: scusami, non ti amo più. L’ha lasciato l’elettore prima di andare via. E come in tutte le storie d’amore finite male, il congedo non è mai improvviso. Avviene per sfinimento. L’elettore che se n’è andato non è stato tradito, o ferito. Se n’è andato consumato dagli sforzi di farsi vedere. Se n’è andato dopo essere stato condannato all’invisibilità da colui che tanto amava, di cui tanto si era fidato. Oggi il Pd è sulla porta a fare l’analisi dei flussi, a chiedersi dove ha sbagliato, a chiedersi di che pasta sia fatto l’elettore fuggito di cui ci si accorge sempre solo in assenza. Un elettore che fino a ieri si è manifestato sotto forma di allucinazione, categoria da appiccicare posticciamente a un presente che sfugge alla comprensione: “gli operai che votano a destra”, “le minoranze”, “gli ultimi da ascoltare”. Etichette che dicono poco e non spiegano niente.
Venerdì scorso Piazza del Popolo, sede del comizio di chiusura della campagna elettorale del Pd, era lo specchio dello scollamento tra il partito e la realtà. Sul palco una classe dirigente che già processava la sconfitta. Non un sorriso – non che ci fosse gran che da ridere, si intende – non la consapevole umiltà di chi sta andando incontro al peggiore degli scenari possibili, scivolare male sotto la soglia psicologica del 20%.
Un partito che sa di perdere può, come la metà della coppia sulla porta, far finta di non vedere. O avrebbe potuto, per esempio, invitare su quel palco l’elettore scettico, quello perso, quello andato via. Qualcuno che, di fronte al rappresentante che non ha rappresentato, potesse dire: mi riconquisteresti se. Ti voterei ancora, se.
Invece no. Sul palco di piazza del popolo c’erano esponenti del partito costretti dai tempi dello spettacolo, della politica twitterizzata, a parlare per 60, 90 secondi.
Ma cosa si può dire in 60 secondi se non uno slogan, dunque cosa si può dire se non una cosa inutile?
Sotto al palco i sostenitori spossati. Lo specchio del bacino elettorale del partito: ultrasessantenni molti, giovani pochi, a prima vista classe media o medio alta. Quando dal palco parte Bella Ciao cantano in pochi, non tutti volentieri.
Avevano metabolizzato quello che i dirigenti stentavano a capire, cioè che il contrario della timidezza non fosse cantare il fior del partigiano morto per la libertà. Avevano capito, persino loro che in un atto di fede sventolavano da seduti le bandiere del Pd, che la campagna di contrapposizione “o noi, o loro” non avrebbe portato da nessuna parte. Ma recitavano il copione, perché a 36 ore dal voto non c’era ormai più niente da fare se non assecondare l’ultimo atto del dramma borghese. Nella coppia – avrebbero detto amici e conoscenti – non andava né male e né bene. Condizione che di solito è preludio di disgrazia.
Una sola cosa avrebbe dovuto dare vita alla piazza, come alla campagna elettorale del Pd: la lotta alla disuguaglianza sociale. Non lo spauracchio del fascismo, non la dicotomia qui o lì, noi o loro, i giusti in lotta con i cattivi (ma come? Non era esattamente questo che fino a ieri criticavate, l’opposizione noi-loro?), al centro, senza sosta, a braccare il dibattito pubblico, a fare da filo rosso di questa breve, penosa campagna elettorale avrebbero dovuto essere poche semplici parole: faremo tutto quello che è in nostro potere per combattere la più pericolosa minaccia del nostro tempo: la disuguaglianza. La ferita che attraversa il Paese da Nord a Sud, un Paese in cui il quartiere dove nasci determina non solo chi sei, ma anche cosa puoi desiderare di essere, in cui la geografia vincola le aspirazioni, in cui la distanza dal centro era, resta e diventa sempre più una distanza sociale e se sei nato a 12, 15 chilometri dal centro città e vai a scuola con i mezzi pubblici, i tuoi compagni di classe dicono che invece dell’autobus ti muovi con “gli spostapoveri”’. Un Paese che sono sempre due, una capace di cogliere le opportunità della crescita e una esclusa dallo sviluppo. Un Paese in cui il gioco del capitalismo ha fatto sì che in una città che brilla di lustrini e influencer e che ha visto una forte concentrazione di ricchezza come Milano, a fare la coda per i pacchi alimentari non ci siano più solo quelli che al giornalismo e alla tv piace descrivere con un generico “poveri”, ma anche gli insegnanti, professoresse e professori destinati a dividere un appartamento con altri che come loro pur lavorando ce la fanno sempre meno o non ce la fanno più, messi all’angolo della società dei consumi, privati della reputazione che solo vent’anni il loro ruolo sociale conferiva. Laddove c’è più ricchezza c’è più disuguaglianza. In questo mondo rovesciato, il Pd ha pensato che fare politica significasse alimentare la paura del ritorno del fascismo e che dare voce ai vulnerabili significasse servire gli gnocchi e la pizza alla Festa de l’Unità di qualche territorio nocciolo duro, che duro poi si è rivelato non essere.
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