La sinistra che dimentica le disuguaglianze
Il Pd, invece di elevare la nostalgia a valore, avrebbe riappropriarsi con tenacia del tema della disuguaglianza della cui narrazione si erano nel frattempo appropriati i populismi, Fratelli d’Italia e il movimento di Conte.
Entrambi hanno fatto della pratica discorsiva anti establishment e di quella emotiva la chiave per far sentire la politica vicina agli elettori. E lì, nello spazio tra rivolta contro i poteri forti e sentimentalismo, hanno stabilito una comunità, un’identità forte e mobilitante. Hanno costruito politica dove il Pd negli ultimi anni ha creato solo smarrimento.
Il Pd ha assistito all’indebolimento del contratto sociale che rappresentava la stabilità politica, ha assistito al calo di fiducia verso l’intera classe politica, all’aumento del numero dei cittadini sempre più insoddisfatti della democrazia, guardando indietro. Un partito spaventato dal cambiamento e ossessionato dal passato che non riesce più ad essere ambizioso, ancorato alla nostalgia dei tempi andati che rischia di trasformare quella che dovrebbe essere una forza progressista nella quintessenza del conservatorismo. L’ambizione di una forza politica non dovrebbe esprimersi solo con il senso del dovere di essere stampella di qualsiasi governo per il bene del Paese, ma quella di trasmettere l’idea di Paese che si ha in testa.
Non ora, non oggi. Non nell’eterno presente. Ma tra 15 anni. L’ambizione di un partito progressista dovrebbe essere quella di parlare di futuro perché sa guardare al futuro e di guardare al futuro perché ha un’idea di come vorrebbe realizzarlo.
Invece questo è un partito di leader – tutti – affetti dalla patologia dell’infallibilità.
Se perdo – riassumo – è sempre colpa di un altro. Stavolta è colpa di Conte. Un partito in cui nessuno sa dire: ho sbagliato. Non Conte, non la contingenza, non l’oggi. Ha sbagliato l’intera classe dirigente che per elaborare il lutto della sconfitta il giorno dopo i risultati elettorali pubblica foto su IG che ritraggono una volta ancora se stessi, al mare a casa, più o meno dolenti. Ma sempre e solo se stessi, mentre sgomenti vivono “il giorno triste per il Paese”. Eh no, signori. Il Paese va rispettato sempre, è così che funziona la democrazia che tanto difendiamo qui come altrove. Non è un giorno triste per il Paese, è un giorno triste quello della politica che invece di reagire interrogandosi, ha la presunzione di attribuire colpe e responsabilità e risponde alla sconfitta con la lista di figurine da inserire sull’album del prossimo congresso. Quota donna, ce l’ho. Quota quarantenne, ce l’ho. Quota amministratore regionale che ce l’ha fatta, ce l’ho.
Un partito in cui nessuno riesce più a essere minoranza. Chi perde sbatte la porta e se ne va, dimenticando che quello che rende utile la politica è la gestione del conflitto, esterno ma soprattutto interno, che quello che fa l’identità è l’equilibrio tra le forze. Non la fuga da chi vince il congresso, se non ci rappresenta.
È la minoranza, sempre, a fungere da contrappeso. Nei partiti, come in Parlamento.
Oggi, se vuole imparare di nuovo la lingua del futuro, deve imparare a parlare quella dell’impopolarità. Avere il coraggio di dire che per stare meglio e fare meglio bisogna fare a meno di qualcosa, fare a meno del passato, degli idoli, degli eroi. Scendere dall’eremo dei migliori e cominciare a presentarsi alla società diventata invisibile con un pragmatismo pieno di passione.
«Mi presento, sono il Partito Democratico, vorrei fare di nuovo la tua conoscenza, elettore deluso. Ho sbagliato tutto, tu aiutami ad aiutarmi, aiutami a ripartire».
Come nelle migliori storie d’amore, l’altro forse non tornerà, ma nessuno potrà dire di non averci almeno provato.
LA STAMPA
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