La scure di Meloni per non alzare le tasse: tagliare reddito di cittadinanza e Superbonus

ALESSANDRO BARBERA

ROMA. Nella vulgata della politica qualcuno ci leggerà la sconfessione dei pilastri di quello che fu il governo gialloverde. La malizia aiuta fino a un certo punto. Da qualche parte i soldi dovranno arrivare, e pur di non mettere nuove tasse il partito di Giorgia Meloni sta ragionando sulle grandi voci del bilancio statale sulle quali si può risparmiare: bonus edilizi e reddito di cittadinanza. Che la futura premier abbia in animo di ridurre gli aiuti generosamente distribuiti a circa due milioni e mezzo di italiani è cosa nota. Fonti concordanti aggiungono il secondo tassello. Fra il 2020 e il 2021 i sussidi per tutti i tipi di ristrutturazione sono costati 25 miliardi di euro. Ad essi occorre aggiungere i venti e più miliardi spesi per il superbonus del 110 per cento. Mario Draghi l’ha più volte criticato, per le troppe frodi e la sostanziale iniquità: non tenendo conto del valore degli immobili e della difficoltà di applicarlo nei condomini, è diventato un affare soprattutto per la classe medio-alta e i possessori di seconde case. Ma era e rimane la misura bandiera del Movimento Cinque Stelle, che di quel governo è stato l’azionista di maggioranza finché non ha deciso di mandarlo a casa. Ora i Cinque Stelle sono all’opposizione, e Meloni ha lo spazio politico per intervenire. Il fatto che il governo non ci sia ancora non tragga in inganno: il tempo per scrivere la legge di bilancio del 2023 è pochissimo. Le valutazioni sono iniziate prima del voto e rimbalzate fino a Palazzo Chigi, dove ieri è stata approvata la nota di aggiornamento dei conti pubblici. La neutralità di Draghi sulle scelte del nuovo governo è testimoniata dall’ultima delle 26 pagine del documento. La tabella «quadro programmatico» è in bianco: quelli sono i numeri che dovrà scrivere la nuova maggioranza dopo aver concordato la linea di politica economica.

Molto dipenderà da chi verrà fatto sedere nella poltrona più difficile che c’è: quella del ministro del Tesoro. Dai palazzi giunge voce che il pressing su Fabio Panetta si è fatto asfissiante. C’è chi pronostica una chiamata di Sergio Mattarella che farebbe piazza pulita di dubbi e ambizioni. I dubbi sono di chi si chiede con chi sostituirlo nel comitato direttivo della Banca centrale europea: c’è chi ha suggerito il ministro uscente (e come lui funzionario in distacco dalla Banca d’Italia) Daniele Franco. Le ambizioni sono quelle di Panetta: è noto per essere il successore in pectore di Ignazio Visco a via Nazionale nel 2023. «La solidità del governo si potrà giudicare soprattutto dalla presenza o meno di Panetta», dice sotto la garanzia dell’anonimato un frequentatore di lunga data di Palazzo Chigi.

Sia come sia, il nuovo ministro del Tesoro avrà davanti a sé un lavoro difficilissimo: tassi in crescita, inflazione vicina al dieci per cento, una possibile recessione nel 2023. Nella nota di aggiornamento dei conti Draghi ha lasciato al governo un margine di spesa di quasi dieci miliardi di euro, e la previsione di una crescita nel 2023 dello 0,6 per cento. Negli uffici studi delle banche d’affari ieri c’era chi giudicava la stima troppo generosa. Due delle principali agenzie di rating prevedono ben altro: Standard and Poor’s una contrazione dello 0,1 per cento, Fitch dello 0,7. Dallo staff di Palazzo Chigi la vedono diversamente partendo da due constatazioni. La prima: il governo Draghi ha sempre fatto previsioni più caute di quanto accaduto a consuntivo. La seconda: la stima è lievemente più bassa di quella del Fondo monetario internazionale (+0,7 per cento), solitamente fra i previsori più affidabili.

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