Sorella d’Italia, sarai Evita Melòn o la Thatcher de noantri?
Viviamo un difficile interregno. Come l’inferno, per Giorgia Meloni la via per Palazzo Chigi è lastricata di buone intenzioni. Alla sua prima uscita ufficiale, dal palco milanese della Coldiretti, la Sorella d’Italia dispensa piccole cose di non pessimo gusto. “Abbiamo in mente di dare risposte efficaci e immediate ai principali problemi”. E questo è (quasi) tutto. Manca infatti un solo dettaglio, non trascurabile: “La priorità sarà il costo dell’energia, come sapete siamo in costante contatto con il governo, impegnato in una trattativa molto complessa a livello europeo”.
La premier entrante ci tiene a farci sapere che insieme a quello uscente si sta adoperando per garantire la famosa “transizione ordinata” tra le due legislature, senza la quale l’Italia si gioca l’osso del collo: un posto a sedere tra i grandi di un mondo minacciato dalla guerra nucleare, un ruolo dignitoso in un’Europa travolta dalla crisi energetica, la stabilità economica e la pace sociale del Paese. È un messaggio confortante. Per l’oggi, indica senso della misura e della responsabilità. Ma per il domani, chissà. È questo l’interregno, questa la terra di mezzo nella quale vaghiamo, sapendo molto di ciò che lasciamo, niente di ciò che troveremo.
La Vecchia Epoca tramonta: la Politica fallita che cede lo scettro alla Tecnica, specchio di una crisi di sistema che costringe due civil servant a fare i presidenti del Consiglio e due presidenti della Repubblica a prolungare il mandato al Quirinale. Il 2011 e il 2022: undici anni racchiusi tra due Mario. Monti che prova a tamponare i disastri del berlusconismo, Draghi che cerca di ricostruire tra le macerie del contismo.
In mezzo, il lungo kamasutra del demo-grillo-leghismo, dove populisti capaci di niente si contendono e si scambiamo il potere con governisti pronti a tutto.
Tutto cambia, dopo le elezioni di domenica scorsa. Quattro italiani su dieci disertano le urne, e questo è un virus micidiale per tutte le democrazie d’Occidente. Ma la Politica si prende lo stesso la sua rivincita. C’è una maggioranza chiara, trainata da un “ex-partitino” sopravvissuto all’eclissi finiana che in dieci anni decuplica i consensi ed espugna il Palazzo d’Inverno. Le tre destre riunite conquistano Camera e Senato, anche se incassano più o meno gli stessi voti del 2018, circa 12 milioni. Ma hanno 18 punti di vantaggio sulla coalizione avversaria: un distacco che non ha precedenti nella Storia repubblicana. Aspettiamo dunque la Nuova Era che sorge. E ci facciamo domande. Chi sono, questi Fratelli d’Italia? A che razza di destra si ispirano e si ispireranno? Soprattutto, chi è Giorgia Meloni? Sarà una Thatcher de noantri, più corriva ma non meno cattiva della Lady di Ferro inglese? O sarà Evita Melòn, più “sfascista” ma non meno sovranista della First Lady argentina?
Nulla è chiaro, al momento. Se non l’ennesimo paradosso italiano. In Patria (e mai come oggi parola fu più esatta) siamo diventati immediatamente e sospettamente “patriottici”. Come osserva Domenico Starnone, le preoccupazioni che trapelano da Washington, Parigi o Bruxelles ci innervosiscono di più delle congratulazioni che piovono da Mosca, Budapest o Varsavia. I timori delle democrazie più amiche ci infastidiscono più dei clamori delle peggiori democrature. Come si permettono, Lorsignori, di intromettersi nei nostri affari interni? Con che faccia di palta si permettono di ricordare il passato “post-fascista” di questa destra nata dalle costole del Msi? Ammettiamolo: ancora una volta, funziona il solito riflesso condizionato da Strapaese, in continuo andirivieni tra servo encomio e codardo oltraggio. Ma non è un bello spettacolo. Anzi, è una vergogna. E se nel caso della premier in pectore come di chiunque altro è sicuramente inaccettabile far ricadere sui figli le colpe dei padri (tanto più se i secondi sono malamente scomparsi dalle vite dei primi), è altrettanto insopportabile la violenza verbale con cui si manganella chiunque si azzardi a sollevare un dubbio etico, un distinguo politico o anche solo un giudizio storico. Fa orrore il pestaggio mediatico di un intellettuale come Antonio Scurati, colpevole di aver scritto una trilogia su Mussolini, e per questo bollato come “uomo di M…” da palafrenieri del giornalismo che in passato, per ossequiare il Cavaliere, ci hanno regalato qualunque dolosa nefandezza: dai dossier-patacca su Telekom Serbia e i soldi a “Ranocchio, Cicogna e Mortadella”, alle false veline sull’allora direttore di Avvenire Dino Boffo. Meloni non ha alcun bisogno di “soccorso ai vincitori”, né di mediocri apparatciki da servizio pubblico a caccia di poltrone, né di “volonterosi carnefici” da Minculpop privato in cerca di medaglie. Al contrario: certi “favori”, che immaginiamo non richiesti, le arrecano solo danno.
Fatevene una ragione: il futuro dell’Italia non sta a cuore solo agli italiani. Siamo un Paese fondatore della Madre Europa. Siamo economia “sistemica” per l’Eurozona. Siamo cerniera tra Ovest e Est. Siamo gancio della Nato nel Mediterraneo, al quale si possono appendere o impiccare il Medioriente e il Corno d’Africa. Nulla è indifferente, all’estero, di ciò che accadrà a Roma nei prossimi mesi. Dobbiamo saperlo. E dobbiamo sapere che al momento la paura prevale sulla speranza. In pubblico lo dice Joe Biden, che ragionando sul destino delle democrazie liberali e sulla minaccia trumpiana in vista del voto di Midterm avverte i suoi governatori “guardate cosa è appena successo in Italia”. In privato lo dicono i banchieri centrali, che da Francoforte ci esortano a “preparare i sacchi di sabbia davanti alle finestre”. Non hanno torto. Nonostante i prudenti silenzi della leader, tra i “patrioti” fibrilla l’anima autarchica e isolazionista incarnata dalla dottrina Fazzolari-Pera. Ribadire anche dopo il voto che “il diritto italiano deve prevalere su quello comunitario” è un altro modo per tenere sempre accesa la fiamma tricolore, che arde nel cuore dei nostalgici post-missini e tiene in continua ebollizione la pentola della destra eurofobica.
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