Quei democrat bipolari con l’identità perduta
Andrea Malaguti
Con gli occhi infossati, bui, il mento abbassato, il segretario democratico, Enrico Letta, annuncia amaro e solenne un nuovo Congresso Costituente, mettendo di fatto in liquidazione quel che resta del Pd, un partito che, a guardarci bene, non è mai esistito. Riformista o laburista? Cattolico o socialdemocratico? Macroniano o melenchoniano? Schiavo dei poteri forti o attento ai fragili, agli invisibili e persino (bestemmia) al lavoro e alle periferie? Dieci segretari, tre reggenti, quindici anni di vita e un unico ininterrotto psicodramma. Da Veltroni a Letta, passando per il bis di Renzi, solo due cose non sono cambiate: “Lo sfacelo della psiche” (copyright Massimo Cacciari) e una irrimediabile mancanza di identità, prologo ed esito di ogni prevedibile sconfitta.
Invocando il ritorno dell’ “Io collettivo”, spirito santo per comunità smarrite, per lo meno Letta evita al suo popolo la stucchevole farsa del reggente. Non ci saranno un Orfini o un Martina a cui passare temporaneamente lo scettro in attesa della rivelazione, ma si proverà a ricorrere al gigantesco lettino psichiatrico del confronto con i tesserati e con i simpatizzanti di ogni ordine e grado. Una ripartenza dal basso che alla sinistra manca dalla svolta della Bolognina, ispiratrice persino del film di Moretti. Anche la rivoluzione ulivista e la scelta di Romano Prodi furono operazioni di massa, certo, però gestite dall’alto.
Questa volta la diafana Araba Fenice dell’ “Io Collettivo” sarà chiamata a scolpire un profilo finalmente umano allo sgraziato mostriciattolo nato dalla fusione a freddo tra Ds e Margherita. È quello il legno storto da cui quotidianamente germoglia un equivoco senza eguali in Occidente. Uno sdoppiamento di personalità che ha portato a lungo i Dem a interrogarsi sulla collocazione europea (al centro o a sinistra?) è da lì, con l’effetto domino delle contraddizioni, sui valori, sulle idee e sulla visione da consegnare al Paese, con l’unico risultato di non averne trovata nessuna.
Difficile dimenticare il paradosso pre-elettorale di un ministro della Difesa, Guerini, che chiede di aumentare le spese militari al 2% del Pil mentre alla festa dell’Unità di Bologna sventolano in ogni stand le bandiere della pace.
Partito di nessun luogo e di tutte le posizioni, il Pd pirandelliano di questi ultimi anni, è diventato una banale macchina di potere per il potere. Quando non sai più chi è il tuo elettorato e, peggio, che cosa dire, ti avviti nella ricerca affannosa di rendite di posizione, finendo per candidare il torinese Fassino in Veneto e il ferrarese Franceschini in Campania, ma portandoti sempre in tasca una spiegazione comoda, estetica, mai quella vera.
Facile allora per Calenda farsi testimonial del riformismo, sbertucciando la favoletta del campo largo, e per Conte diventare il Masaniello delle battaglie sociali. Ma la differenza tra l’assistenzialismo di utile quanto opinabile prospettiva e l’idea di un welfare largo, moderno ed efficace, è la stessa che passa tra il populismo nazionalista e una socialdemocrazia compiuta e contemporanea, concentrata su scuola, sanità, lavoro giustamente retribuito e diritti, grammatica di base dei progressisti nel mondo.
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