Pd, prima del nome cambi i dirigenti

Annalisa Cuzzocrea

Forse bisogna tornare a chiedersi quale fosse il destino scritto in quel nome, Partito democratico, prima di buttarlo via. Ricordare quando nacque, dalla fusione di Ds e Margherita, con l’ambizione di contrastare la forza berlusconiana che aveva tirato fuori la destra dall’oblio e l’aveva già una volta portata al potere insieme a un centro conservatore e connivente. Nacque nel 2007, il Pd. Già nel 2008, il centrodestra vinceva di nuovo. Il primo di molti fallimenti. E anche allora, c’era chi non vedeva l’ora di cambiare linea e segretario, senza fermarsi a capire le ragioni della sconfitta. O meglio, sciorinando ognuno motivi funzionali alla propria piccola battaglia di potere. C’era da aspettarselo. Un anno prima, al Congresso di scioglimento dei Ds a Firenze, ogni dirigente che prendeva la parola per spiegarne le ragioni, con discorsi a tratti ispirati, aveva alle spalle un nemico interno che faceva un sarcastico controcanto nelle retrovie. Chi dice oggi che il problema del Pd è la mancata fusione tra l’anima social democratica e quella cattolica democratica sa di prendere una rapida scorciatoia. Non è mai stata quella la faglia di divisione. Ci sono ex ds che sono andati molto più d’accordo con persone di ispirazione cattolico-democratica, com’era David Sassoli, che con i loro vecchi compagni nelle federazioni giovanili del Pci.

E allora forse bisognerebbe lasciarla in pace, quell’ambizione, l’unica in grado di formare un partito plurale come quelli che da decenni esistono in ogni parte del mondo libero. E bisognerebbe concentrarsi su cosa, su chi. A partire da chi ha sbagliato: da chi sapeva che senza un’alleanza larga era impossibile vincere e anche perdere bene, ma non è riuscito a costruirla. Da chi ha pensato che per rianimare il Sud bastasse bussare alla porta dei potentati locali di Michele Emiliano e Vincenzo De Luca, usurati, consumati, afoni. Da chi ha creduto che l’importante fosse spartire i pochi posti disponibili tra le correnti per mantenere una pace utile allo status quo. Da chi sulle liste ha fatto dossieraggi interni per far spazio a se stesso o ai propri candidati. Da chi non ha pensato che dopo sei o sette legislature, forse sarebbe meglio salutare, andare, riflettere, mettersi al servizio.

Quel che sta accadendo adesso, dentro e fuori quello che resta comunque il primo partito di opposizione alla destra che si appresta a governare, è esattamente il contrario: si pensa al nome per non pensare alla cosa. Si pensa al simbolo per non sciogliere il nodo eterno: a chi deve parlare quel logo rosso e verde? Chi deve tutelare? Chi rappresenta? Chi si sente già al sicuro o chi ha perso ogni certezza? Chi vuole stabilità o chi ha bisogno di fare una battaglia? Chi ha più risorse o chi ha più paura? Ci sono molte insidie dentro questo gioco al massacro che sta crescendo dentro e fuori il Pd. Proviamo a metterle in fila, perché non è cadendoci dentro che questa legislatura – guidata da una maggioranza di destra così forte – avrà un’opposizione in grado di contrastare i pericoli di un Parlamento così sbilanciato. Molti di coloro che oggi invocano lo scioglimento del Pd perché confluisca in qualcosa di nuovo, lo fanno perché dell’ambizione iniziale di un grande partito plurale non sanno più che farsene. Da una parte, ci sono dirigenti e intellettuali attratti dal populismo grillino, incarnato nelle forme più educate e presentabili di Giuseppe Conte. Tralasciandone le ambiguità, le furbizie, gli errori, l’incapacità di credere in mediazioni accettabili nel nome di un eterno vittimismo. Dovrebbe accadere qui quel che è accaduto in Francia, con la sinistra storica che si mette sotto le ali di un Mélenchon all’italiana, anche se l’originale, il leader della France insoumise, quando è venuto in Italia con i 5 stelle non ha neanche voluto parlare.

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