Gli incubi da scacciare
L’America di Biden dovrebbe premere, persuadere, intimare. Il segretario dell’Onu Guterres dovrebbe dedicare tutto il suo tempo a uno sforzo di pace senza lasciarsi condizionare dai segnali contrastanti che vengono da Paesi come Cina e India. L’Europa, da parte sua, avrebbe il dovere (e il diritto) di dimostrare che la volontà può contare anche più degli strumenti dei quali si dispone
Che l’abbia scritta o no pensando agli effetti apocalittici della Bomba, con A Hard Rain’s A-Gonna Fall , composta nel 1962 all’epoca della crisi missilistica di Cuba, Bob Dylan ci ha consegnato per sempre la visione di un mondo attraversato da «decine di oceani morti», orrendamente devastato da una esplosione nucleare e dalla successiva «dura» pioggia di scorie radioattive: un mondo «dove nero è il colore e nessuno è il numero». Il futuro premio Nobel per la Letteratura ci assicurava nell’ultima strofa, «iniziando ad affondare», che «avrebbe saputo bene la sua canzone prima di cominciare a cantare». Troppe canzoni come questa non sono state mai cantate da quando con folle volontà di potenza il presidente russo ha aggredito un popolo alla ricerca della libertà. E da quando — pochi giorni fa, ma dopo altre minacce precedenti di questo tipo — il leader del Cremlino ha annunciato l’intenzione di difendere «con tutte le forze e le risorse a disposizione» le regioni annesse nei referendum-farsa (bene ha fatto la Farnesina a convocare ieri l’ambasciatore di Mosca Sergey Razov, direttore d’orchestra del concerto di provocazioni cui assistiamo da tempo nel nostro Paese), evocando «il precedente» delle esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki.
Oggi siamo così tornati a vivere l’incubo nucleare. Senza versare lacrime. Immemori del passato, inconsapevoli del futuro, vivendo in una futile dittatura del presente. Sembra quasi impossibile che dopo aver indicato per anni la corsa agli armamenti nucleari come il più terribile dei pericoli che l’umanità aveva di fronte e dopo aver assistito a decenni di negoziato per ridurre o limitare la minaccia, sia un uomo solo a riportarci verso un orrore che avevamo accantonato e di cui forse non capiamo interamente la micidiale portata.
Un uomo solo e male accompagnato. Alle parole di Vladimir Putin si sono aggiunte infatti le farneticazioni dei falchi che lo circondano, come l’ex «numero due» Dmitrij Medvedev (l’uomo che gli tenne il posto tra un mandato e l’altro) o il leader ceceno Ramzan Kadyrov (il padre che ha mandato al fronte i tre figli minorenni, Akhmat, Eli e Adam), che ha addirittura sollecitato l’uso in Ucraina di ordigni nucleari tattici a basso potenziale. Senza paura di cadere nel grottesco, il Cremlino ha poi definito «emotive» le sue dichiarazioni. L’emotività del male, si potrebbe dire.
All’ex dirigente dei servizi segreti divenuto un efferato autocrate la Nato ha risposto, unita, con la ormai abituale e giusta fermezza. È stato il segretario generale dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, a chiarire che «qualsiasi uso di armi nucleari avrà conseguenze serie per Mosca». Aver passato questo limite è stato definito tanto «sconsiderato» quanto «pericoloso». A Bruxelles come a Washington, a Londra come a Berlino, a Parigi come a Roma (lo tenga a mente il futuro governo, senza esitazioni), bisogna ormai rendersi conto che la Russia si è trasformata, come ha scritto Thomas Friedman, «in una gigantesca Corea del Nord». I cui confini vanno dall’Europa libera ai bordi dell’Alaska.
Ma quali obiettivi si prefigge Putin minacciando l’uso di armi nucleari negli stessi giorni in cui annuncia le annessioni? Secondo un’analisi del New York Times alle ragioni di politica interna e al desiderio di riconquistare il rispetto perduto nel mondo dopo i recenti insuccessi militari, si unisce concretamente il tentativo di limitare o fare cessare l’appoggio occidentale a Kiev e di spingere il presidente ucraino a trattare «in una posizione svantaggiosa». Questo è proprio il nocciolo della questione: non è possibile costruire la pace in Ucraina se si dovesse verificare anche una sola di tali condizioni.
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