La rabbia del premier ma Giorgia garantisce: “Non c’è nessuno scontro”
ALESSANDRO BARBERA E FRANCESCO OLIVO
ROMA. Mario Draghi è furioso: «Ho fatto tutto il possibile, le ho lasciato il lavoro fatto. Adesso tocca a lei». Le critiche di Giorgia Meloni alla gestione del Pnrr e il suo rifiuto di andare al Consiglio europeo sono vissute come un attacco personale. Non se lo aspettava, non dalla leader alla quale ha sempre riconosciuto lealtà, ricambiando piena disponibilità nel passaggio di consegne.
A sera, quando l’incendio ormai è divampato, Giorgia Meloni manda un messaggio per cercare di rasserenare gli animi: «Non c’è nessuno scontro con Draghi». La presidente di Fratelli d’Italia non ha interesse nell’alimentare un duello che giura di non aver cercato e che di sicuro non le giova. La «transizione ordinata», lo ha ribadito ieri, è un tassello fondamentale dell’inizio di un mandato che, ancora prima di cominciare, già si presenta complicatissimo. L’urgenza di dover precisare («non si è trattato di un botta e risposta») è direttamente proporzionale alla vastità dell’incendio scoppiato nel pomeriggio di ieri.
Quando il presidente del Consiglio legge le agenzie, nelle quali il suo probabile successore critica la gestione del Pnrr, il fastidio sfocia presto nell’ira. Lo stato d’animo, se possibile, peggiora qualche ora più tardi. Intorno alle 17 viene pubblicata una frase che Meloni avrebbe detto durante l’esecutivo del suo partito: «Non andrò al Consiglio europeo del 20 e 21 ottobre. A cosa serve forzare i tempi per un appuntamento in cui si rischia di portare a casa poco, o peggio ancora, un fallimento?». La testimonianza è di un deputato di FdI, e la circostanza viene confermata da altri dirigenti presenti alla riunione in Via della Scrofa.
Draghi si sente chiamato in causa, è toccato sul vivo: da una parte Meloni sta mettendo in discussione quello che per lui è un punto d’onore – aver compiuto sforzi enormi per permettere all’Italia di ottenere i fondi europei – e dall’altra crede che definire «un fallimento» un negoziato che ancora deve entrare nel vivo è una mossa che indebolisce il Paese. Il premier, peraltro, è convinto del contrario: quella sul tetto al prezzo del gas è una partita che l’Italia può vincere. Dire poi, in sostanza, che è meglio mandare lui a fare una brutta figura a Bruxelles viene vissuto come una scortesia personale.
«L’Italia ha raggiunto ancora una volta tutti gli obiettivi del Pnrr, come ha accertato la Commissione la scorsa settimana», chiarisce Draghi in cabina di regia. Il punto di vista di Meloni è un altro. Per prima cosa, ci tiene a precisarlo, durante la riunione del partito a Roma il passaggio sul Pnrr non voleva essere un’accusa al premier, ma una constatazione: l’Italia ha speso solo una parte dei fondi erogati, 5,1 miliardi contro i 13,7 ricevuti, come spiegato nella primavera scorsa dallo stesso ministro dell’Economia Daniele Franco alle commissioni di Camera e Senato. Quindi un conto è l’attuazione normativa e i bandi, un’altra è la cosiddetta “messa a terra” dei progetti.
C’è poi un’altra obiezione che fanno i Fratelli d’Italia: il Pnrr è stato pensato prima della guerra e dell’aumento dei costi delle materie prime e quindi andrebbe adeguato alle nuove esigenze, «non penso sia un reato dirlo», ha ripetuto spesso Meloni durante la campagna elettorale. I fondi di compensazione per l’aumento dei prezzi delle materie prime viene considerato «assolutamente insufficiente» dagli esperti del partito che si stanno occupando del dossier: circa 7 miliardi a fronte dei 36 necessari. «In questo modo i bandi andranno deserti», ha spiegato spesso Meloni in questi giorni. Per evitare questo scenario, i collaboratori più stretti della futura premier stanno pensando di modificare la struttura dedicata al Pnrr presente attualmente a Palazzo Chigi, una nuova task force è allo studio, così come resta in piedi l’idea di creare un ministero ad hoc per la gestione dei fondi europei.
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