La formazione del governo non sarà un pranzo di gala

di Massimo Franco

Lessico cauto e rinuncia al trionfalismo hanno suscitato l’impressione di un tentativo serio di provare a governare. Ma sarà il risultato finale a definire la caratura dell’esecutivo

L’aspirazione di Giorgia Meloni a guidare un governo di alto profilo è non solo legittima ma doverosa. È legittima perché nel momento in cui una leader con la sua storia si prepara ad approdare a Palazzo Chigi per la prima volta, non può non avere l’ambizione di lasciare un segno positivo. Ed è doverosa per l’investitura popolare che ha ricevuto, per quanto depotenziata dall’astensionismo massiccio. Al contrario di Mario Draghi, che nel comporre la sua squadra ministeriale ha dovuto tenere conto delle richieste di partiti agli antipodi, Meloni non ha vincoli di unità nazionale: in teoria è libera di plasmare il governo a propria immagine. Se vuole, può promuovere uno spirito di concordia.

Il suo vantaggio è di non essere costretta a farlo, avendo alle spalle una maggioranza politica chiara e un primato nel centrodestra indiscusso, per quanto sofferto dai suoi alleati, in particolare Lega e Forza Italia. I toni bassi che ha scelto in questi primi giorni dopo il voto del 25 settembre sembrano avere ridotto la soglia della diffidenza nei suoi confronti, almeno in Italia. E il lessico cauto e perfino parsimonioso, con la rinuncia alla tentazione del trionfalismo, sono stati notati. Hanno dato l’impressione di un tentativo serio di provare a governare; e di mettere da parte i proclami demagogici e palingenetici della maggioranza populista che si saldò dopo le elezioni del 2018 tra M5S e Lega.

R imane da capire e da vedere se questo approccio iniziale sarà confortato dalla scelta dei ministri. Bisogna ricordare che i candidati espressi dal centrodestra nelle elezioni del 2021 nelle grandi città non sono stati all’altezza delle sfide.

Sotto questo aspetto, Meloni e la sua maggioranza dovranno dare prova di avere capito gli errori passati; e soprattutto di essere in grado di esprimere una classe dirigente, attirando nella loro orbita persone competenti e esperte, anche al di là delle appartenenze politiche. La discrezione con la quale finora la premier in pectore si è raccordata con Draghi e il Quirinale per garantire una transizione non traumatica va registrata positivamente. Come è opportuna la precisazione con la quale ieri Meloni ha negato qualunque scontro con il presidente del Consiglio uscente sull’attuazione del Piano per la ripresa.

Ma sarà il risultato finale a definire la caratura del governo, non la sua semplice evocazione. Né ci si debbono aspettare sconti o tregue da rodaggio, dopo avere alzato l’asticella della credibilità in maniera così esplicita. Se il profilo alto additato non riceverà conferma, il governo allo stato nascente si ritroverà a gestire non solo grossi problemi ma una grande delusione. Le questioni da affrontare sono troppo gravi per alimentare illusioni su un’uscita rapida e facile da questa fase. Il Paese e l’intero Occidente stanno per essere immersi in mesi di tensioni sociali e di incertezza economica.

Già si indovina il tentativo di un populismo ridimensionato ma pervicace di soffiare sul malcontento per riprendere spinta. Il suo dna lo porta a scommettere sempre su un collasso del sistema, ne ha bisogno come l’ossigeno: anche dopo avere dimostrato che la sua vera coerenza è stare al potere con chiunque glielo consenta, salvo tornare alle pulsioni più estremistiche una volta sconfitto. Di fronte a queste sfide, sarebbe miope sciupare l’occasione non solo di un governo ma di una visione che sappia miscelare continuità e novità.

Non è detto che l’operazione abbia successo. La cosa peggiore, tuttavia, sarebbe scaricare sulle maggioranze del passato o perfino sulla Costituzione la colpa di non riuscire nell’impresa. Meglio, dunque, non tradire le premesse abbozzate in queste due settimane scarse; e non rinunciare troppo a cuor leggero al tentativo di coinvolgere le minoranze nelle istituzioni. Non ci saranno più un governo di unità nazionale né un premier che, per quante critiche possa ricevere adesso, gode di un raro prestigio anche internazionale. Ma l’unità nazionale, comunque declinata, appare più necessaria che mai.

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