Draghi attacca Von der Leyen e i nordici: “La recessione sarà colpa vostra”

ALESSANDRO BARBERA

INVIATO A PRAGA. «Stiamo discutendo di gas da sette mesi. Abbiamo speso decine di miliardi dei contribuenti europei, serviti a foraggiare la guerra di Mosca e non abbiamo ancora risolto nulla. Se non avessimo perso così tanto tempo ora non ci troveremmo sull’orlo della recessione». Praga, ieri. L’enorme sala affrescata di bianco del castello è piena di sole. I ventisette leader dell’Unione sono riuniti attorno a un enorme tavolo quadrato. Mario Draghi è al penultimo vertice internazionale da premier. Prende la parola e lascia di stucco più di un presente. «Non l’abbiamo mai visto così duro», racconterà uno di loro. L’ex banchiere centrale mette da parte i toni compassati e volge lo sguardo verso Ursula von der Leyen, Olaf Scholz, Mark Rutte. Con la prima aveva già discusso riservatamente la sera prima, invitandola a rompere gli indugi e a smettere di farsi condizionare dai colleghi tedesco e olandese. Con i due c’è invece vera e propria freddezza. Draghi è irritato soprattutto con Scholz, e la decisione comunicata la scorsa settimana di destinare duecento miliardi di euro del bilancio nazionale alla crisi del gas.

Nonostante si discuta da sette mesi, i leader attorno al tavolo restano divisi in due partiti. Da un lato i nordici, quelli più preoccupati e dipendenti dalle forniture di gas russo, dall’altro i mediterranei, che possono contare su altre fonti di approvvigionamento (l’Italia e la Spagna anzitutto) o sul nucleare, come la Francia. Prima e dopo le riunioni Draghi si apparta più volte con Emmanuel Macron. All’inizio discutono della grana scoppiata dopo le parole della ministra delle Politiche comunitarie a Repubblica, e la promessa di «vigilare» su Giorgia Meloni. Macron si impegna con Draghi a una dichiarazione riparatrice, che arriverà. Il resto della conversazione è sulla questione che sta a cuore all’italiano, ovvero trovare un accordo sul prezzo del gas entro il 20 ottobre.

La decisione della presidenza ceca di convocare in seduta permanente i ministri dell’Energia fa credere a Draghi che un risultato si raggiungerà. Durante la riunione il premier ripete quel che aveva detto il giorno prima a Von der Leyen durante un bilaterale: ciò che conta non è introdurre un tetto rigido, ma un meccanismo in grado di contenere i prezzi. Secondo Draghi la volontà politica può essere da sola sufficiente a risolvere il problema, esattamente come accadde dieci anni fa con il discorso del «whatever it takes»: quell’impegno bastò da solo a salvare dal peggio la moneta unica. Per dare credito alla sua tesi Draghi osserva giorno per giorno l’andamento del mercato del gas di Amsterdam, dove si scambiano contratti futures e dunque i prezzi sono fatti sulle aspettative e non su quantità fisiche: ieri è stato scambiato a 155 euro a megawatt ora, il 12 per cento in meno del giorno precedente. Come a dire: basta ventilare l’ipotesi di un accordo e il prezzo cala.

È dal 9 marzo che Draghi insiste su questo punto ai tavoli europei. La prima volta fu proprio con Von der Leyen: «Dobbiamo liberarci del ricatto russo il prima possibile», disse alla presidente della Commissione. La lunga transizione fra Angela Merkel e Scholz non ha aiutato. In sette mesi la distanza fra Palazzo Chigi e la cancelleria di Berlino non si è mai colmata: il primo convinto della necessità di intervenire, contando sul fatto che l’Unione è un cliente irrinunciabile per Mosca, il secondo preoccupato del contrario, ovvero delle ritorsioni russe e del taglio delle forniture. «I fatti stanno dando ragione ai miei argomenti», ripeteva ieri Draghi nei conciliaboli. La decisione tedesca di stanziare 200 miliardi di fondi nazionali per affrontare le conseguenze della crisi per lui è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. In questi sette mesi il governo italiano ha stanziato più di sessanta miliardi di euro e ora, con l’aumento dei tassi di interesse, non ha spazio per altro deficit.

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