La superstite e il fan del Duce al Senato la staffetta degli opposti
Concita De Gregorio
Umiliati dalla supremazia della realtà sul romanzo moltitudini di sceneggiatori hanno immaginato ieri di cambiare vita, forse un chiringuito a Playa del Carmen. Per un giorno intero la disfatta degli scrittori di fiction dell’orbe terracqueo ha avuto i volti di Liliana Segre e Ignazio Benito La Russa, e già qui: Lombroso scansati. Passaggio di consegne a Palazzo Madama: lei vittima dell’Olocausto nazifascista, lui collezionista di memorabilia del Duce che non celebra il 25 aprile – data della Liberazione dal nazifascismo medesimo. (Questo è il momento in cui il moderno produttore restituirebbe infastidito il copione: troppa trama, eccesso di simboli. Sfoltire, semplificare). Ma andiamo avanti. Luogo: Italia. Soggetto: nuova legislatura, storica vittoria del centrodestra. Scena prima: insediamento delle Camere, elezione dei presidenti. Si fa prima quello del Senato. Presiede la seduta la senatrice a vita Segre, classe 1930, testimone e vittima dell’Olocausto, bambina ad Auschwitz. Novantadue anni, storia del Novecento, sta con chioma candida e profilo da nibbio sullo scranno più alto: compie piccoli movimenti elegantissimi, calibrati, consapevoli. È un simbolo assoluto, l’ultima Marianna d’Italia. Lui, Ignazio Benito, colto da un primo piano nel momento che segna il riscatto di una vita: ride, non sta fermo nel banco. Era rimasto dietro lo stipite della porta, affacciato a vedere la campagna elettorale solo con un occhio per tutto il tempo, intimato di fare silenzio e tenere giù il braccio («Lo sai anche tu che ti si alza teso in automatico, porta pazienza») ma ora ecco che Giorgia Meloni non ha più bisogno di occultare la matrice, ha stravinto e vuole lui alla seconda carica dello Stato, supplente del Presidente della Repubblica ex articolo 86 della Costituzione, secondo in carica a rappresentare il Paese: lui, che proprio nuovissimo nel Salvifico Mondo dei Nuovi non è. I cineasti da ieri in crisi di identità possono vederlo per esempio in un Bellocchio del ’72, “Sbatti il mostro in prima pagina”, mentre fascistissimo conciona a un comizio. Poi è stato anche ministro, certo. Con Berlusconi, naturalmente: la vita scorre, non è che restiamo tutti fermi alle origini. Tuttavia, qualcosa financo nell’arredo domestico di quel che siamo stati e resteremo permane: busti, gagliardetti, cose così. Ma andiamo su Silvio Berlusconi appena nominato. Ecco che nel copione magistralmente scritto dalla realtà compare l’immagine di Mao Tze Tung, ma no: la camera stringe ed è Berlusconi invece, 86 anni appena compiuti con mongolfiera di compleanno e lancio di palloncini voluti dalla finta ultima moglie Marta Fascina, naturalmente eletta in collegio blindato. Anche Berlusconi cercava il riscatto, per quanto minore rispetto al popolo di Casa Pound e residenze limitrofe giacché lui, Silvio B., al governo ci è già stato e anche parecchio. Voleva il riscatto dalle sentenze, dall’onta di essere stato escluso dagli incarichi pubblici per via di certi inconvenienti giudiziari che neppure i suoi avvocati nominati ministri erano riusciti a evitargli. Ma invece, guarda a volte che giri fa la vita, invece ora gli tocca rinunciare al Senato (quanto lo avrebbe voluto, quanto) per dare alla sua giovane manutentrice il premio produzione che le spetta. Dicono, gli informati benissimo, che abbia smesso di reclamare per sé la Seconda Carica in cambio di un posto di peso, al governo, per Licia Ronzulli: in gioventù infermiera, poi grande ordinatrice di ingressi diurni e notturni in Villa, custode di confidenze assai intime, infine braccio destro e anche sinistro, filtro, centralinista, factotum e alter ego. Capitolo: il Cavaliere e la Donzella, la storia della letteratura a sostegno. Qui stacco su Gianni Letta, per più di mezzo secolo l’uomo più influente del Paese, eminenza azzurrina, che violando la sua leggendaria riservatezza dice, sguardo in camera: «Non sono arrivato a 87 anni per mettermi in lista d’attesa per parlare con qualche ragazzina di Arcore». Tutto chiaro, dottor Letta. Grazie.
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