Lettera alla Sorella d’Italia

MASSIMO GIANNINI

Cara Giorgia Meloni, ci rivolgiamo a Lei, in modo così diretto, perché stiamo maturando una convinzione. Lei non è Golda Meir. Lei deve ancora dimostrare tutto. Ma nelle tre destre che hanno vinto le elezioni, e che stanno occupando i gangli del potere, proprio Lei e solo Lei, lontana dall’identità di questo giornale per cultura e per formazione, rappresenta la residua e flebile speranza di non mandare il Paese in rovina. Abbiamo apprezzato la sobrietà con cui ha reagito al trionfo elettorale di Fratelli d’Italia, dal 25 settembre in poi: la Storia ci riserva troppi drammi, perché si possa brindare a champagne. Apprezziamo le parole con le quali giustamente condanna la stella a cinque punte riapparsa su una sede di FdI, minaccia inaccettabile nei confronti del nuovo presidente del Senato: è importante respingere ogni violenza, ribadire che la seconda carica dello Stato farà di tutto per incarnare “imparzialità e autorevolezza” e che il vostro impegno sarà quello di “unire la nazione”.

Sappiamo bene cosa ci divide. La “matrice”, innanzitutto, quella che a Lei stessa non fu “chiara” dopo l’assalto alla Cgil degli squadristi di Forza Nuova, mentre era chiarissima allora è lo è ancora oggi negli episodi di violenza minuta che ancora costellano la galassia dalla quale proviene il suo partito. La matrice post-fascista e post-missina è tuttora irrisolta. E non bastano un mazzo di fiori e uno scambio di baci tra Ignazio Benito e Liliana Segre a sanare la ferita che ancora sanguina dal Suo e dal nostro Novecento. Sappiamo altrettanto bene che, per i cittadini che Le hanno affidato l’onore e l’onere di governare l’Italia, quella piaga è evidentemente rimarginata.

Ne prendiamo atto: la maggioranza degli italiani vi ha scelto e liberamente votato, dunque siete legittimati a guidare il Paese. Ma per noi questo non basta. L’idea che il lavacro delle urne purifichi chiunque dai suoi peccati riflette una visione populista della democrazia. Aspettiamo segni di netta discontinuità, a partire dalle prossime ricorrenze che solo in Italia – come ha ricordato la stessa Segre a Palazzo Madama – risultano “divisive”: il 28 ottobre, centenario della Marcia su Roma, e il 25 aprile, Festa della Liberazione.

Da questa “matrice” discendono le divisioni conseguenti. L’idea dell’Europa come matrigna, dell’euro come camicia di forza, della nazione come luogo fisico e geopolitico della “non omologazione”, della patria come unico spazio ideale ed etico-morale della cittadinanza, della religione cristiana come fonte di supremazia spirituale e alla fine anche razziale, della famiglia tradizionale come unico monopolio dell’amore. Alcuni di questi valori della destra che Lei rappresenta sono in corso di rivisitazione. La sporca guerra di Putin l’ha spinta a correggere alcune posizioni non più sostenibili. L’antiamericanismo e la vena eurofobica sembrano lasciare il campo alla fedeltà iper-atlantista e a una sorta di “europeismo problematico”, con tutte le ambiguità che la formula si porta dietro. Per il resto, tutto è ancora da fare e molto c’è ancora da chiarire.

I primi atti sono stati sconfortanti. L’elezione dei presidenti delle due Camere, se da un lato esalta la Sua collaudata capacità di mediare con gli alleati, dall’altra mortifica la Sua dichiarata volontà di unire il Paese. Che la maggioranza abbia voluto spartirsi l’intero bottino nelle istituzioni dispiace, ma non indigna: va così dal 1994, quando il primo governo Berlusconi inaugurò la dittatura della maggioranza in Parlamento, e tutti i governi successivi, compresi quelli di centrosinistra, si adeguarono. Quello che inquieta, però, è che le due figure scelte sono l’antitesi di uno spirito repubblicano condiviso. Più di La Russa – che pure da goliardico “fascistone” impenitente non ha mai brillato per moderazione istituzionale – soprattutto Lorenzo Fontana. Sarà pure servito a riunire intorno al suo Capitano Rancoroso una Lega spappolata, ma il neo-eletto a Montecitorio è persona in ogni senso “divisiva”. Per tutto quello che ha detto e che ha fatto in questi anni (compreso il discorso di investitura, di pochezza disarmante). Il sostegno ai nazisti greci di Alba Dorata. La fede ultra-cattolica e pre-conciliare brandita come una clava purificatrice. Le campagne pro-Putin e le magliette contro le sanzioni. L’odio oscurantista per la comunità Lgbtq e per i diritti civili, a partire dall’aborto. La difesa proto-leghista del Grande Nord, contro tutte le compromissioni con Roma Ladrona e il “Meridione”. Ci rendiamo conto che il sì a Fontana è stato il prezzo che Lei ha dovuto pagare, per curare Salvini dalle recidive di sindrome da Papeete e chiudere con lui la partita dei ministri. Ma non si può meravigliare se l’opposizione grida allo “sfregio”: lo è, a tutti gli effetti e a prescindere dal colore politico di chi usa questo termine. E c’è poco da sperare in quella che i cultori del diritto costituzionale chiamano “la grazia di Stato”, cioè la metamorfosi di chi, dopo aver militato per una parte, eletto nelle istituzioni inizia a prodigarsi per il tutto. Onestamente, fatichiamo a immaginare La Russa e Fontana che, dopo aver indossato per decenni le divise della curva ultrà di appartenenza, ora vestono “panni regali e curiali” in nome del bene comune (come scriveva Machiavelli nella famosa lettera a Pierfrancesco Vettori). Siete certamente maggioranza, ma grazie al 44% del 63% dei cittadini che si sono recati al seggio. Serve rispetto per chi non vi ha votato o è rimasta a casa.

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