Il Paese latente e i retaggi di una destra pre-moderna
Arriva il terzo Natale dell’Era Covidica, e siamo davvero “il Paese della latenza”: domande crescenti, risposte assenti. Nell’attesa che arrivino, se mai arriveranno, annaspiamo tra resilienza e disuguaglianza, galleggiamo tra autodifesa e conservazione, oscilliamo tra rinuncia e recessione. Di fronte a una maledetta pandemia che cambia forma ma non sostanza e a una sporca guerra novecentesca che dura e annienta vite umane e risorse economiche, ci acconciamo a convivere o a sopravvivere con le troppe crisi d’epoca. Il virus e le sue varianti, Putin e i suoi vaneggiamenti, l’inflazione e i suoi sconvolgimenti. Come dice il Censis, l’Italia non regredisce grazie allo sforzo individuale, ma non matura. Riceve stimoli a mettersi sotto sforzo e a confrontarsi con le ferite della Storia, ma non reagisce, si difende, riduce i danni, non cresce, non guarda avanti. Nell’attesa di diventare adulta, si affida al solito stellone nazionale: le poche eccellenze che brillano, le molte esportazioni che reggono, il vecchio turismo che non molla. Per il resto, la piramide sociale appare quasi cristallizzata e ripiegata su se stessa. Protetta all’interno dai suoi eroici 1600 miliardi di risparmi privati, alla base dai sussidi a pioggia e al vertice dalle rendite di posizione e di ricchezza. La “nazione”, non da oggi, avrebbe un drammatico bisogno di una scossa. E invece la legge di bilancio che sta faticosamente arrivando al traguardo non scuote niente, se non le coscienze e le incompetenze di chi l’ha così malamente assemblata. Da quel testo, purtroppo mai così pasticciato, esce un’idea di piccolo Paese, autarchico, passatista e pre-moderno.
Per carità di Patria (la “nostra madre”, come dice Meloni), stendiamo un velo pietoso sugli innumerevoli e imbarazzanti dietrofront di queste settimane: il tetto all’uso del Pos e l’abolizione di App18, il colpo di spugna sui reati tributari e l’aumento delle pensioni minime a 1000 euro. Se ci fossero ancora Longanesi e Flaiano, di fronte a un esecutivo che all’estero continuano a bollare come post-fascista, riderebbero di questa continua “retro-marcia su Roma”. Urge una doppia premessa. Primo: nessuno deve sottovalutare l’unica cosa buona che c’è nella manovra, cioè il rispetto dei saldi contabili concordati con la Commissione europea, grazie al quale per ora i mercati fischiettano e lo spread sonnecchia. Secondo: nessuno può illudersi che in tre mesi si possano sciogliere nodi strutturali che l’Italia si porta dietro da quasi venticinque anni. È dalla fine degli Anni ’90 che l’Italia ristagna, ha una crescita pari a meno della metà della media Ocse e una produttività quasi piatta, mentre nell’Eurozona è ai primi posti per spesa previdenziale in rapporto al Pil e agli ultimi posti per tasso di occupazione femminile e giovanile.
Questi problemi non li ha risolti nessuno degli esecutivi che si sono avvicendati finora. Ma dal primo governo della Sorella d’Italia, che dopo la parentesi tecnocratica di Draghi riporta la politica al centro della scena, era lecito aspettarsi di più. Lei stessa, con onestà, lo ha dovuto ammettere: “Si poteva fare di meglio”. Eppure questo patchwork un po’ informe di piccole prebende (ce ne sono una ventina, dalla mancia per gli allevatori di bufale a quella per i cammini religiosi) e di grandi sanatorie (ce ne sono dodici, dal condono per le cripto-valute al Salva-calcio) riflette esattamente la visione della società italiana che questa destra coltiva da tempo. Una società tradizionale e patriarcale, assistenziale ma al tempo stesso poco solidale. E tendenzialmente classista, individualista, sessista. Molto incline alla conservazione, poco propensa al cambiamento. Una società che vive di insicurezze e paure. La sinistra ha perso perché non lo ha capito, la destra ha vinto perché, invece di neutralizzarle, le ha nutrite. E ora che governa salda le sue cambiali politiche con ciascuna delle singole constituency elettorali che l’hanno portata in trionfo a Palazzo Chigi.
I salvati della manovra sono soprattutto i maschi, bianchi, adulti e/o anziani, e quelli che la premier ha chiamato “i figli di un dio minore”: i lavoratori autonomi, i commercianti, gli artigiani, le partite Iva. Simbolo di un’economia terziaria, a volte un po’ arretrata, in parte sommersa, comunque radicata nei settori più maturi dell’economia. A costoro, le tre destre hanno fatto ponti d’oro: la comoda Flat Tax al 15 per cento per i ricavi fino a 85 mila euro, il tetto a 5 mila euro per l’uso del contante, la rottamazione di multe e cartelle, la definizione delle liti pendenti, il ravvedimento speciale, quota 103 sulle pensioni e l’aumento delle minime per gli ultrasettantacinquenni. I sommersi della manovra sono tutti gli altri. Il ceto medio, cioè i lavoratori dipendenti, quelli che pagano le tasse alla fonte fino all’ultimo euro, ma soprattutto le donne, i giovani e i più poveri. A costoro le tre destre hanno dato un piatto di minestra. Ai dipendenti arrivano i pochi spicci di taglio del cuneo fiscale. Per le donne ci sono i due soldi di Iva ridotta per assorbenti e pannolini, un’Opzione-Donna che oltre a ridurre del 30 per cento l’assegno previdenziale richiede come requisito il fatto di essere care-giver da sei mesi, e infine l’aumento del congedo genitoriale e solo femminile per il primo mese di vita del figlio. Per i giovani non c’è nulla: il bonus cultura sparirà tra un anno (non subito, solo perché hanno pastrocchiato anche su questo) e il reddito di cittadinanza sparirà tra sette mesi, all’indomani dei quali anche i ragazzi laureati dovranno abituarsi “a fare i lavori che fanno gli extracomunitari” (secondo la dottrina dell’Uomo Qualunque esposta dal ministro Lollobrigida).
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