Il Paese latente e i retaggi di una destra pre-moderna

C’è “una certa idea dell’Italia”, in tutto questo. Siamo un popolo di santi, poeti ed evasori, e dobbiamo continuare ad esserlo. Siamo un popolo di famiglie più o meno regolari, dove la donna è madre e tale è meglio che resti, e se tra milioni di underdog una su mille ce la fa è solo perché sa lottare come un uomo. Siamo un popolo di ragazzi sdraiati e “schizzinosi” (secondo la teoria del Bar all’angolo spiegata dal viceministro Durigon), che dunque devono continuare ad adattarsi a qualunque lavoro “incongruo”, sfruttato e sottopagato, con tanti saluti alle loro ambizioni, ai loro titoli di studio, ai genitori che li hanno fatti studiare, alla piaga dei “cervelli in fuga” e al ministero della Pubblica istruzione e “del Merito”. A questo aggiungiamo una stupefacente idiosincrasia per l’innovazione (tra disincentivo ai Pos, abolizione dello Spid e soppressione del ministero per la Transizione Digitale) e una passione primordiale per l’autotutela armata (vedi la norma sulla caccia ai cinghiali). Così il quadro è completo. Ed è a tinte fosche.

Ancora una volta, invece di destrutturarla e rifarla daccapo, i “Patrioti” al potere assecondano la fotografia sociale fatta dal Censis. Lo sforzo di autoconservazione, l’istinto a resistere e a mantenere convenienze individuali, il contenimento dei doveri di solidarietà, lo scivolamento in basso degli investimenti sociali: tutto ciò che finisce per appiattire l’Italia sul suo “già esistente”. E nulla come la conservazione dell’esistente accentua vecchie disuguaglianze e genera nuove contraddizioni, scollegando i singoli individui da ogni responsabilità collettiva verso gli altri e verso il futuro. Questo è il punto. Le tre destre sembrano non avere carte da giocare sulla crescita economica e sulla coesione sociale, sulla modernizzazione dell’impresa e sulla valorizzazione del capitale umano. Non hanno da offrire all’Italia e agli italiani un altro contratto sociale, che incroci capitale e lavoro attraverso un nuovo Welfare. Al suo posto, c’è solo una giustapposizione disordinata degli interessi corporativi.

Ma in questa fine d’anno vogliamo essere ottimisti. Vogliamo sperare che anche queste destre, tamponata l’emergenza, di qui in avanti sappiano stupirci con un progetto, un’idea, un disegno. E vogliamo credere persino a Matteo Salvini, il Capitano Rancoroso che ora dice “questa è solo la prima delle cinque manovre che faremo nel corso della legislatura”. Aspettiamo le prossime, pregando che l’Italia ci arrivi indenne e che gli stessi italiani che li hanno votati non se ne debbano pentire. Viene in mente Benedetto Croce, nel suo “Soliloquio” appena uscito da Adelphi, quando rimuginava sui destini del Paese e sulla caduta di Mussolini, il 25 luglio del ’43: “Egli, chiamato a rispondere del danno e dell’onta in cui ha gettato l’Italia, con le sue parole e la sua azione e con tutte le sue arti di sopraffazione e di corruzione, potrebbe rispondere agli italiani come quello sciagurato capopopolo di Firenze, di cui ci parla Giovanni Villani, rispose ai suoi compagni di esilio che gli rinfacciavano di averli condotti al disastro di Montaperti: ‘E voi, perché mi avete creduto?’”.

LA STAMPA

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