Lo scontro culturale sul fisco

di Maurizio Ferrera

L’evasione sottrae all’Erario circa 100 miliardi l’anno, quasi il doppio di quanto costano scuola, università e ricerca

Le misure sul fisco sono state quelle più controverse della manovra di bilancio. La Commissione europea ha sollevato obiezioni sul condono e insistito per l’eliminazione della norma sul Pos. Il governo è stato accusato di ammiccare agli evasori e incentivare il cosiddetto «nero» nel piccolo commercio, secondo una logica di cattura del consenso simile a quella che aveva ispirato l’opposizione ai lockdown e al green pass durante la pandemia. Lega e Fratelli d’Italia non sono certo gli unici partiti europei a perseguire questo tipo di politiche.

I l taglio delle tasse e insieme l’aumento di trasferimenti e protezioni per chi lavora nei settori tradizionali fanno parte dell’agenda di molti movimenti di destra. Le categorie sociali di riferimento sono i ceti medio-bassi più colpiti dalle crisi dell’ultimo decennio, peraltro sullo sfondo di un più generale declino socio-economico.

In Italia c’è però un elemento in più. I sostegni monetari e fiscali (condoni e stralci compresi) vengono presentati e accolti come una sorta di «atto dovuto» rispetto alle categorie interessate, nel quadro di una accettazione rassegnata o addirittura benevola da parte del pubblico generale di contribuenti. Un fenomeno paradossale, ma che riflette un tratto profondo della cultura politica di questo Paese: l’avversione generalizzata nei confronti delle imposte nonché la tolleranza diffusa dell’evasione.

Anche se collegato alla crescita nel tempo del prelievo, questo tratto culturale ha accompagnato la storia italiana sin dal dopoguerra. Pensiamo al Fronte dell’Uomo Qualunque, un movimento che già negli anni Cinquanta protestava contro lo «Stato vampiro», anticipando gli slogan che furono poi fatti propri dal partito fratello di Pierre Poujade in Francia. Dai primi sondaggi comparati sulla «morale fiscale» dei cittadini, effettuati negli anni Sessanta, l’Italia emergeva come il Paese in cui l’idea delle tasse come «dolorosa sottrazione» (piuttosto che come contributo per i servizi pubblici) era la più radicata. Poi sono arrivate le Leghe, i proclami di Bossi che incitavano alla rivolta fiscale, gli inviti alla disobbedienza quando fu introdotta l’Imu. Fra il 1972 e il 2002 ci fu qualche forma di condono praticamente ogni anno.

I fattori che stanno alla base della anomala cultura fiscale italiana sono molteplici: scarsa fiducia sociale e nelle istituzioni, clientelismo, mala amministrazione. Un ruolo cruciale è stato giocato da un fenomeno tutto italiano: l’allentamento (fino quasi alla sparizione) del legame fra versamento delle imposte e dei contributi, da un lato, e godimento delle prestazioni sociali dall’altro. Nell’area del lavoro autonomo questa rottura ha assunto proporzioni senza paralleli in Europa. Sin dalla loro istituzione, ad esempio, i regimi previdenziali degli indipendenti hanno prevalentemente erogato pensioni di importo fisso, senza rapporto diretto con i contributi versati. In sanità, il passaggio dal finanziamento contributivo a quello fiscale ha alimentato l’illusione che l’accesso alle cure fosse un diritto senza contropartita. Per anni, l’autocertificazione della situazione economica ha consentito l’esenzione dai ticket anche a utenti non certo bisognosi. Se il welfare viene percepito come qualcosa di dovuto in quanto tale; se cioè si smarrisce o non si è mai sviluppata la consapevolezza che le prestazioni sono il corrispettivo dei versamenti dai cittadini (anche se con correzioni a fini equitativi), allora non possiamo stupirci che si pensi alle tasse come sottrazione e alla riscossione come un furto.

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