Le democrazie “resilienti” e l’anno zero delle autocrazie
Anche quest’anno la notizia della morte delle liberal-democrazie è risultata largamente esagerata. Finisce un orribile 2022 e l’Occidente resta certo “prigioniero”, come scriveva Milan Kundera nel novembre dell’83. Ma nessuna delle profezie autoprodotte in un secolo di cultura e di letteratura si è infine realizzata. Il processo ineluttabile di degradazione dei valori raccontato nei Sonnambuli di Broch. La società euforica e ignara della sua imminente scomparsa descritta dall’Uomo senza qualità di Musil. Il Tramonto dell’Occidente che cerca la propria via nell’apoteosi del suo stesso morire, descritto da Spengler. Fino ad arrivare ai pensatori più recenti, dallo Zakaria di Democrazia senza libertà ai Levitsky e Ziblat di Come muoiono le democrazie. La meditazione intellettuale intorno alla possibile Finis Europae è estesa e profonda. Ma la realtà è ostinata e irriducibile. E dice questo: nonostante i rovesci geopolitici e bellici, sanitari e finanziari, le liberal-democrazie resistono. Secondo l’Economist, questa è la vera sorpresa dell’anno che finisce. E non era affatto scontata, visto che Euramerica ed Eurasia attraversano la fase più critica della Storia, fatte salve le due Guerre Mondiali. Dal Covid all’invasione dell’Ucraina, dal conflitto Cina-Stati Uniti alle elezioni di Midterm, dai disastri climatici alla crisi energetica, dal record delle disuguaglianze al ritorno della super-inflazione. Ce n’era abbastanza, per temere un crollo del nostro sistema di alleanze e di regole, di assetti istituzionali e di principi etico-morali. Ebbene, non è accaduto. Su questo aveva investito Putin, quando il 24 febbraio ha avviato la sua feroce “operazione militare speciale”. Approfittare della decadenza dell’Occidente come “regno dell’Anticristo”, secondo le teorie di Ivan Ilin e Danil Danilevski, per riconquistare uno Stato fallito e corrotto come l’Ucraina, avviare una serie di “Anschluss silenziose” e poi imporre un nuovo Ordine Panslavo.
La strategia del Cremlino poggiava su una doppia scommessa. Il Gendarme Americano, uscito a pezzi dalla ritirata ingloriosa dall’Afghanistan del 2021, non avrebbe avuto la voglia di cacciarsi in una nuova cold war con l’Orso Russo; e il Vecchio Continente, esausto e diviso, non avrebbe avuto la forza di opporsi al disegno neo-imperiale di Mosca.
Quello che Babai Vladimir, nonno di tutti i russi, non aveva previsto è che dall’altra parte, sulla strada per Kiev, si sarebbe ritrovato non un premier-fantoccio, ma un presidente-guerriero. Volodymyr Zelensky, sia pure con qualche intemperanza e qualche frizione con i suoi alleati, non ha solo difeso e chiamato alla resistenza il suo popolo. Ha anche svegliato le torpide coscienze euroatlantiche, spiegando ai capi di Stato e di governo dei nostri Paesi che la sua guerra era anche la nostra guerra, che i suoi diritti erano anche i nostri diritti, e che proteggere la sovranità dell’Ucraina significava anche difendere la libertà dell’Occidente. La campana di Bucha e di Zaporizhia, di Kherson e di Mykolaiv, è suonata anche per noi. Mai prima d’ora, tra i Paesi Nato, avevamo assistito a una mobilitazione così massiccia e granitica a sostegno di un Paese che pure non appartiene al Patto atlantico. Zelensky che in presenza o in videoconferenza fa vibrare i cuori e gli scranni nel Congresso Usa e nei Parlamenti di Parigi e di Londra, di Berlino e di Roma, è diventato davvero un “campione delle democrazie”, come scrive ancora il settimanale britannico. Le ha ricompattate, e per certi versi rianimate.
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