Presidenzialismo, le garanzie minime
Montesquieu
La Costituzione al centro dei messaggi di fine d’anno delle due figure leader del momento. Per il capo dello Stato, è bussola per la politica e baluardo permanente della democrazia. Con tre parole di corredo, a un tempo monito e priorità per chi governa: l’onestà fiscale, vera patente di cittadinanza; la protezione dai rigurgiti della pandemia, senza la minima ambiguità; lo sguardo lungo e lungimirante di un progetto per il paese. Per il capo del governo, la Costituzione da adeguarsi alle esigenze del tempo. Per una non specificata efficienza del sistema, si immagina; ma di certo si fa possibile il sogno antico della destra politica, l’elezione diretta del capo dello Stato. Da perseguirsi con flessibilità sul modello, in doveroso ossequio agli equilibri parlamentari. L’obiettivo impone la rimozione dal nostro ordinamento della figura originale del nostro capo dello Stato: nei fatti quanto resta del nostro sistema parlamentare, voluto dai padri costituenti come argine definitivo a uno strapotere di governo tragicamente refrattario ai diritti e alla libertà. Una figura specifica a difesa della Costituzione, nulla di meno.
Questo è il tema della legislatura per il governo: e conserva un solo polo del singolare bipolarismo asimmetrico, vivace e attivo negli spazi di governo di centrodestra di ispirazione berlusconiana. Da un lato il capo del governo, per anni Silvio Berlusconi, dall’altro, a turno, quattro consecutivi presidenti della Repubblica, fortuitamente e fortunosamente eletti dalle Camere riunite sempre in tempi di maggioranze di centrosinistra. Maggioranze, queste ultime, fiacche e anemiche nell’opera di protezione del sistema istituzionale dagli attacchi del governo, opera delegata per intero al capo dello Stato. Una lotta sorda, che distoglieva la difesa delle funzioni parlamentari dal procedimento legislativo spostandolo alla fase di promulgazione delle leggi, prerogativa del Capo dello Stato. Che costringeva quest’ultimo a esercitare energicamente i poteri in sede di formazione dei governi, fino al rifiuto di nomina di ministri proposti dal presidente incaricato. A proteggere prerogative costituzionali nella formazione dei governi da subdole inserzioni nelle leggi elettorali di clausole legislative dirette a condizionare il capo dello Stato nella scelta del presidente incaricato. E via, con relazioni in superficie garbate fatte convivere con tensioni sottotraccia ininterrotte.
Un bipolarismo, di offesa dei governi e di difesa dei vari inquilini del Quirinale (non sempre solo di difesa, quest’ultimo, in anni passati). In questo contesto si inserisce il progetto costituzionale di questo governo. Con una premessa da scandire: nessun equivoco è consentito circa il carattere potenzialmente democratico dei sistemi presidenziali, quando questi siano costruiti e garantiti da sempre più solidi presidi di pesi e contrappesi al potere più forte, quello di governo. E con alcune precisazioni: non c’è bisogno di molte parole per motivare l’impossibile convivenza, ipotizzata recentemente anche su queste pagine, tra un governante di elezione popolare e una controfigura di presidente garante di investitura parlamentare: sarebbe un conflitto permanente, dominato dal presidente eletto. E, va detto con un briciolo di difendibile pregiudizio, sarebbe stato più tranquillizzante che il grande passo verso il cambio di sistema istituzionale, non fosse avvenuto su iniziativa e regia di una destra sempre ai margini della Costituzione, che ha testé dimostrato scarsa sensibilità nella scelta dei presidenti delle Camere. A questo punto, non resta che auspicare che il presidente del Consiglio, con la sua maggioranza, voglia rassicurare i perplessi rispondendo ad alcune domande. Basiche domande: concorda la maggioranza con la necessità di temperamento reale dei poteri di un governo presidenziale con gli altri poterei costituzionali, a partire da quello parlamentare?
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