“Basta associare papà solo alla lotta alla mafia. Sconfisse anche le Br”

Paolo Guzzanti

Non c’è nulla di peggio degli anniversari per banalizzare la memoria. Per fortuna esiste il caso opposto: quello del recupero della memoria, un filmato che non è una fiction, ma piuttosto un docufilm, interpretato per di più da attori come Sergio Castellitto e tanti altri, bravissimi nel riprodurre non una somiglianza ma una memoria. È accaduto. (La serie Il nostro generale andrà in onda su RaiUno dal prossimo 9 gennaio).

Quaranta anni fa il generarle Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Manuela Setti Carraro furono barbaramente assassinati a Palermo da Cosa Nostra. Da allora il Generale è salito sul palco degli eroi della guerra alla mafia. Ma Dalla Chiesa è stato prima di tutto il comandante in capo, unico e vittorioso, del Gruppo antiterrorismo dei carabinieri che accettarono di abbandonare la vita civile rinunciando a mogli e fidanzate per combattere e vincere la guerra dello Stato contro le sedicenti «Brigate rosse per il comunismo».

La figlia Rita oggi dice: «In questi anni io e la mia famiglia abbiamo spesso assistito, increduli e sgomenti a interpretazioni romantiche dei brigatisti, ritratti come ingenui idealisti oppure, nel peggiore dei casi, come vittime di un sistema politico che li manipolava». Ed è stato esattamente così: chi c’era e ricorda, sa che i brigatisti formavano una banda armata di carnefici, in parte certamente eteroguidati dal sistema sovietico (ho personalmente raccolto le dichiarazioni del Procuratore capo di Budapest nel 2006), uccidevano sparando alle spalle dei cittadini inermi, in nome di una narcisistica ideologia sanguinaria.

«È così ricorda Rita dalla Chiesa – venivano coccolati da un certo tipo di sinistra che li accoglieva nei salotti, li nascondeva nelle seconde case e arricciava il naso di fronte ai Gruppi Antiterrorismo di mio padre. Noi l’abbiamo proprio vissuta sulla nostra pelle questa ingiustizia perché, dopo mio padre, ho perso mia mamma, morta d’infarto a cinquantadue anni senza avere neanche avuto funerali decenti, dal momento che ci tenevano in caserma per proteggerci e non si poteva uscire».

Che cosa ricorda di quella mesta cerimonia di addio in un garage di una caserma?

«Ricordo carabinieri che aprivano le corone e distruggevano i fiori per assicurarsi che non ci fosse nascosto un ordigno. Non abbiamo avuto il tempo di piangere nemmeno mio padre ucciso dalla mafia. C’è gente secondo cui noi, i figli del generale, tutto sommato non ce la siamo cavata malissimo, tant’è che abbiamo raggiunto comunque posizioni. È una offensiva sciocchezza: quando uccisero papà io ero già una giornalista professionista, mio fratello Nando era professore universitario e nostra sorella consigliere comunale».

Lei ha dichiarato ieri che la memoria di suo padre è ostaggio dell’ambiguità politica. A che cosa si riferisce?

«Mi riferisco al fatto che non riuscendo a fare i conti con il proprio passato c’è una politica che ricorda quello che le fa comodo».

Insomma secondo lei i partiti di sinistra fingono di non ricordare la guerra vinta da suo padre contro i terroristi di sinistra e lo usano soltanto come icona antimafia?

«Non credo che sia un caso che la figura di mio padre sia più associata alla lotta alla mafia che non alla sua vittoria sui brigatisti rossi. Se fosse vero vorrebbe dire che un martire della criminalità organizzata è meno divisivo di colui che ha sconfitto le Brigate Rosse».

Ma qual è stato secondo lei il motivo reale, la causa immediata dell’uccisione di suo padre?

«L’arrivo del ministro Rino Formica a Palermo, quando annunciò una restaurazione della trasparenza. E questa affermazione ha esposto mio padre, già odiato da quando era tornato in Sicilia perché aveva sovvertito l’ordine naturale mafioso, fondato sulla trasversalità degli amici degli amici, i favori degli amici degli amici cui ti rivolgi per cose anche minime come una patente».

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