Per le (grandi) riforme la fretta non è d’aiuto
Affrontando insieme vicende fondamentali e casi secondari, come sta facendo attualmente il governo, spesso si è costretti a fare percorsi all’indietro
«Meglio meno, ma meglio». Questo il titolo di un celebre articolo che il 4 marzo del 1923, a cinque anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, Lenin pubblicò sulla Pravda. Lettera scritta con l’intento di dare la linea al XII Congresso del Partito comunista russo (bolscevico) che si sarebbe tenuto a fine aprile. Vladimir Uljanov era già stato colpito da un primo ictus e, pur avendo da poco compiuto cinquantatré anni, avvertiva di essere alla fine dei propri giorni (sarebbe morto nel gennaio dell’anno successivo). Intendeva con quell’articolo dar sfogo all’irritazione nei confronti dei compagni di partito che avevano «fretta» di realizzare il programma originario e «blateravano» nel nome della «cultura proletaria». «Per incominciare», scrisse, «ci accontenteremmo di un’autentica cultura borghese». Si concentrassero i dirigenti del Pcr(b) su un minor numero di obiettivi, era l’esortazione di Lenin, e cercassero di ottenere risultati apprezzabili in campi limitati e specifici.
Ci permettiamo di suggerire la lettura di questo testo a Giorgia Meloni alla quale, probabilmente, non è capitato di inciampare in esso negli anni del suo percorso formativo. La scarsità di analogie tra la «rivoluzione» che la destra italiana ha in programma per il 2023 e quella russa del 1917 non è in discussione.
Conta che da quella lettera di Lenin la presidente del Consiglio può trarre qualche spunto di riflessione sui primi due mesi di vita del suo governo. Scoprirà d’aver messo troppa carne sul braciere e che, in fin dei conti, è lei stessa la vera responsabile delle retromarce a cui è stata costretta con impressionante regolarità. Molte retromarce, forse troppe nell’arco di una settantina di giorni. Il problema è che quando si affrontano insieme questioni fondamentali e casi secondari, capita che si sia spesso costretti a compiere repentini percorsi all’indietro. E si debba alla fine constatare che si sono disperse inutilmente preziose energie. A dispetto di risultati che oltretutto sono inferiori al previsto.
Poco male quando si tratta di errori commessi ai primi passi. A patto però che la riflessione dia i suoi frutti e induca a non insistere su quel modo di procedere. E, purtroppo, non è ciò che si prospetta. Ripartire mettendo sul terreno tre riforme gigantesche — quella dell’autonomia differenziata, quella della giustizia e quella costituzionale — non sembra un’idea saggia. Soprattutto in riferimento alla terza riforma, quella che si propone di irrobustire il corpo istituzionale del nostro Paese con una potente iniezione di presidenzialismo. Proposito in sé non disdicevole. Purché si sia in possesso di idee chiare, si possa contare su una maggioranza sufficientemente compatta e si disponga di una strategia per coinvolgere una parte consistente dell’opposizione.
Sulla solidità della maggioranza non ci può essere miglior giudice della stessa Meloni: se avverte di avere alle proprie spalle una falange oplitica, vuol dire che le cose, al di là delle apparenze, stanno così. Ma per quel che riguarda l’opposizione ci sentiamo di escludere che nella fase attuale — fase destinata a durare a lungo — i suoi avversari possano rendersi disponibili ad un accordo. Se non su punti marginali. Forse neanche su quelli.
Il Pd, l’unico partito strutturato e con una storia alle spalle che risale a settantacinque anni fa, ai tempi in cui fu varata l’attuale Costituzione, non può concedersi un allontanamento da quell’ancoraggio. Neanche in merito a temi su cui venti o trent’anni fa avrebbe potuto mostrarsi disponibile. Troppo grande è il rischio di subire contestazioni dai movimenti che gli fanno concorrenza da destra e da sinistra. A cui si aggiungono settori non marginali dell’intellettualità che ha ancora una qualche influenza su quel che resta del suo elettorato.
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