L’orgoglio che va ritrovato
Oggi manca quell’energia, quel gusto del lavoro ben fatto grazie a cui un Paese agricolo devastato alla guerra divenne una grande e ricca potenza industriale
Molti lettori sono rimasti colpiti dalla chiusura di «Vecchia Milano», la storica pasticceria di via Reina, zona piazzale Susa. Il titolare, Orazio Parisi, 83 anni, arrivato da ragazzo a Milano dalla sua Messina, non ce la faceva più; e non ha trovato nessuno disposto a raccogliere la sua eredità. Nell’Italia del dopoguerra, alcune botteghe — ad esempio le macellerie — non chiudevano mai. Neppure il giorno di Natale. Si entrava garzoni a dodici anni, si andava in pensione, e poco dopo si moriva. Ovviamente non abbiamo nessuna nostalgia di quel mondo, di quel sistema. Lavoro durissimo, ciminiere in città, acciaierie in riva al mare, reparti verniciatura, nubi tossiche. Cose irripetibili e da non ripetere. Ciò che forse oggi manca è quell’energia, quell’orgoglio, quel gusto del lavoro ben fatto grazie a cui un Paese agricolo devastato alla guerra divenne una grande e ricca potenza industriale.
Poi, alla fine degli anni 70, il quadro cominciò a cambiare, i grandi conglomerati industriali a essere smantellati. Il robot sostituiva l’operaio, il computer prendeva il posto del contabile. Alla fine del secolo scorso, parve che il lavoro fosse finito. Il grande problema era la disoccupazione. Nel 1997 i socialisti francesi vinsero le elezioni anche perché il loro candidato al ministero dell’Economia, Dominique Strauss-Kahn, disse al tg del primo canale: «Con noi al governo, davanti agli uffici pubblici ci saranno le scritte “si assume”, davanti ai negozi i cartelli “cercasi personale”». Sembrava un miraggio.
Oggi l’Italia è piena di cartelli «cercasi personale». Che non si trova. La prima reazione è istintiva: pagatelo meglio, il personale, e lo troverete. Però aumentando i costi il piccolo imprenditore dovrà aumentare anche i prezzi; e rischierà di perdere clienti e committenti, di finire fuori mercato.
Intendiamoci: in Italia esiste una questione salariale. Gli stipendi aumentano (quando aumentano) molto meno dei prezzi. Intere categorie hanno perso potere d’acquisto, status, prestigio, prospettive. Il problema non è più tanto l’occupazione, quanto i «working poor», i poveri che hanno un lavoro ma non un reddito dignitoso.
Nello stesso tempo, il lavoro sembra diventare sempre meno importante. Continua a essere troppo tassato. Ma viene visto come un peso di cui si potrebbe anche fare a meno, di cui liberarsi prima possibile. Non coincide più con la vita, non è più considerato il mezzo per costruirsi una famiglia, darsi un futuro, esprimere la propria personalità, vivere la vita sociale; ma come un fardello di cui alleggerirsi, se non sbarazzarsi.
Le cause sono molte. La tecnologia ha reso obsolete diverse mansioni tradizionali, selezionando un’élite ben preparata e ben formata, e condannando la base a lavori duri, ripetitivi, frustranti, che lasciamo volentieri agli immigrati, talora in condizioni di semischiavitù. Poi è arrivata la pandemia. I lock-down hanno indotto molti a un cambio di paradigma. Il boom del lavoro da casa e l’introduzione del reddito di cittadinanza hanno fatto il resto. Così siamo diventati la società delle dimissioni (incentivate dalla disparità fiscale crescente tra autonomi e dipendenti). O del «quiet quitting»: che non significa lasciare in silenzio, ma fare il meno possibile.
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