L’orgoglio che va ritrovato

I nuovi strumenti non sono necessariamente negativi; però non possono diventare nuovi dogmi ideologici. Quello che chiamiamo smart working apre spazi per occuparsi dei propri cari, migliora la qualità della vita, riduce i costi delle aziende e il traffico delle grandi città; però ci sono lavori che non possono essere parcellizzati, ridotti a pezzetti che ognuno può costruire per conto proprio, come ai tempi del cottimo, ma richiedono il confronto, lo scambio di idee, lo sforzo collettivo. Tenere una lezione, presentare un libro, condurre un convegno, organizzare una riunione, esaminare un candidato, tutto si può fare anche on line; ma non sarà mai la stessa cosa che farlo di persona, guardando gli interlocutori negli occhi.

Quello che chiamiamo reddito di cittadinanza esiste in tutti i grandi Paesi europei; sostenere — non stipendiare — chi non può lavorare e anche chi non trova lavoro è giusto; ma è evidente che in Italia se ne è fatto un uso distorto. Non tanto per le truffe; quelle possono essere smascherate e punite. Ma se la mentalità è chiedere il reddito appena terminati gli studi, con la prospettiva di arrotondare in nero, si crea un meccanismo che rende il cittadino dipendente dalla politica, e mai davvero autonomo e libero nelle proprie scelte.

Resta da chiedersi perché. Perché vita e lavoro sembrano due lame di forbice destinate ad allontanarsi sempre di più. Ognuno ha la propria spiegazione, spesso vera: la prevalenza della Rete e della vita virtuale; la crisi dei lavori del ceto medio, dal posto in banca alla cattedra di insegnante; l’erosione dei salari e dei diritti. Di sicuro si è esagerato con la precarietà, con questa filosofia per cui il posto fisso è finito per sempre, ogni anno si cambia mestiere, i contratti devono essere flessibili, si fa un tratto di strada con un’impresa o con un gruppo di lavoro e poi si cambia; ma così, accanto a pochi percorsi remunerativi, si crea un’incertezza perenne, si affossa la previdenza, e soprattutto si spezzano i legami che univano il lavoratore a un’azienda e a una comunità.

Forse però è ancora più grave che si sia infranta l’idea che a un merito corrisponda un beneficio. Che studiare, formarsi, impegnarsi consenta di migliorare la propria condizione. Che il lavoro non sia meno importante della rendita, e i soldi si facciano appunto con il lavoro, non solo con altri soldi. Che tra il neoassunto e il manager ci sia un’inevitabile e giusta differenza, ma non l’abisso che separa un paria da un bramino, chi ha un tfr da poche migliaia di euro da chi riceve bonus milionari, magari dopo aver fallito.

Resta da capire se la voglia di lavorare è come il coraggio secondo don Abbondio, e chi non ce l’ha non se la può dare. O se invece la politica, le aziende, la società, le famiglie, le coscienze individuali sono ancora in grado di risvegliare dentro di noi una scintilla di quell’energia, di quell’orgoglio, di quel gusto del lavoro ben fatto senza cui il nostro Paese è destinato a ridursi a un parco giochi per stranieri, che magari amano l’Italia, ma non rispettano noi italiani.

CORRIERE.IT

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