L’elezione drammatica di McCarthy ci consegna un’America più divisa

Lucia Annunziata

Nel quadrilatero del potere Americano, in due austeri edifici a poche centinaia di metri di distanza – la Casa Bianca e il Congresso – è andata in onda la più recente delle rese dei conti della politica Usa. Sfida dolceamara. Franca e ambigua allo stesso tempo.

La vicenda ormai si conosce. Il 6 gennaio, anniversario dell’assalto del 2021 ai palazzi della religione laica che ha inventato, in Occidente, la democrazia, si intrecciano due storie. Alla Casa Bianca il Presidente Biden, sopravvissuto allo tsunami delle elezioni di Midterm che avrebbero dovuto cancellare i dem da Camera e Senato, celebra la sconfitta di quell’attacco distribuendo elogi e medaglie alle forze dell’ordine che avevano fermato la rivolta. È il suo momento più glorioso di questi ultimi mesi.

Non molto più in là, la Camera bassa del Congresso è bloccata da 4 giorni nel voto per la elezione del Repubblicano Kevin McCarthy candidato dal suo partito come Speaker della Camera, la terza carica dello stato, e avversato da venti deputati del suo stesso partito. La vittoria arriva dopo 15 voti, trascinati nel cuore della notte fino alle otto del mattino del 7, in un clima infuocato che arriva alla rissa fra repubblicani nell’emiciclo, e i democratici che non vanno alle celebrazioni della Casa Bianca per evitare che la loro uscita abbassi il quorum e dunque faciliti la elezione di McCarthy.

Ma anche lo scontro sul nome dello speaker, pur tutto interno al partito repubblicano, è il risultato degli eventi di quel 6 gennaio, che ha devastato il partito repubblicano. Le due vicende, in apparenza opposte, ruotano dunque intorno allo stesso problema, che attraversa da almeno un decennio esplicitamente la politica americana: la disruption, una innovazione distruttiva provocata nel cuore di Washington da una destra radicale e antisistema, molto ben interpretata da Donald Trump.

Una resa dei conti, dicevamo, che ha mosso profonde reazioni nella opinione pubblica del Paese.

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Nella tradizione americana la fiducia e il rispetto delle istituzioni passa innanzitutto per l’accettazione del risultato delle elezioni. Ancora più raro è che la elezione da contestare sia quella di un membro del proprio schieramento. Per capire quanto raro, i media in questi giorni facevano risalire l’ultimo caso a cento anni fa. In realtà non è del tutto così.

Il funzionamento di Washington è da tempo in evoluzione. Messo sotto pressione soprattutto dal cambiamento dei profili sociali nell’epoca del reset tecnologico. Da una parte una classe media bianca e non urbana, come in Usa è ampiamente considerata la classe operaia, frustrata e arrabbiata, che guarda da anni ormai alla destra – fu George Bush Junior il primo Presidente a raccogliere questa onda, nella sua seconda elezione, dopo la Prima guerra in Iraq, sostenuto da questo ceto di classe media/operaia degli Stati centrali della Rust Belt, tra cui molti cattolici. Dall’altra una società urbana legata ai diritti identitari, scolarizzata, globalista, figlia della rivoluzione tecnologica, su cui si affermò il decennio di successi della Presidenza Clinton.

È un paese che seri studiosi della politica considerano attraversato oggi da una frattura così profonda da costituire un rischio. Nel report annuale del think tank Eurasia, che ogni anno il 3 di gennaio fa il punto dei rischi alla stabilità globale, il politologo Ian Bremmer, che dell’Istituto è il fondatore, mette tra questi rischi “Una America divisa”. Si legge a pag. 79 del rapporto: «Gli Stati Uniti rimangono una delle politicamente più polarizzate e disfunzionali delle democrazie dei paesi industriali avanzati. La polarizzazione partigiana dell’elettorato americano continua a erodere la legittimità che costituisce la sostanza delle istituzioni federali. I tre rami del governo e un pacifico trasferimento di poteri attraverso libere e corrette elezioni».

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