La religione della Repubblica

di Ezio Mauro

Mentre si festeggia la bandiera, nel giorno del Tricolore, forse bisognerebbe domandarsi se esiste uno spirito laico della Repubblica, un carattere riconoscibile e riconosciuto, una religione civile che lega le istituzioni, il Paese e i cittadini, un deposito comune di valori capace di dare un senso alla comunità nazionale, insieme con la coscienza della sua vicenda storica. Ho qualche dubbio che sia così. Da dieci anni i populismi di destra e di sinistra prosperano su un culto pagano dell’antistato, arruolando il risentimento e il ribellismo dei cittadini emarginati dalla crisi, invece di emanciparli dalle loro paure e dalle loro solitudini trasformandole in una cultura politica capace di produrre integrazione, innovazione e liberazione, la vera formula del cambiamento. L’antipolitica è la negazione di tutto questo perché si limita a coltivare la sterilità della rabbia, incrementando la separazione tra il cittadino e lo Stato in una crescente estraneità reciproca senza rimedio. È questo sentimento di estraneità repubblicana la vera fonte della controcultura politica dominante: che dileggia la democrazia e invita nei fatti il Creator Spiritus invocato da Croce sull’Assemblea costituente a prendersi oggi un periodo sabbatico, perché nel cortocircuito populista le menti e i cuori contemporanei non hanno più bisogno dei sette doni della sua grazia.

I tre elementi che dovrebbero sorreggere il patrimonio di valori condiviso della Repubblica sono la storia, la democrazia e la Costituzione. Il divenire storico del Paese seleziona errori, vittorie, tragedie, lotte, scoperte, successi in un percorso che nell’ultimo tratto – il Novecento – attraversa le guerre, le ricostruzioni, la dittatura, la Resistenza e la fondazione repubblicana; la democrazia è il primo esito di questa esperienza storica, una liberazione e una riappropriazione nazionale di destino, una scelta di coscienza, di impegno e di garanzia; la carta costituzionale è la traduzione di tutto ciò in principi, diritti, doveri e infine istituzioni, che prendono la forma dettata dalla consapevolezza del processo storico e dalla condivisione della libertà riconquistata nella democrazia. Oggi tutti e tre questi elementi sono in discussione. Oltre alla contestazione populista, infatti, la Repubblica deve fronteggiare l’obiezione nazional-sovranista, che prevede una riscrittura della geografia politica e dunque del quadro di riferimento italiano ed europeo.

Vincendo le elezioni e conquistando Palazzo Chigi Giorgia Meloni porta al traguardo il suo percorso personale e la vicenda collettiva del suo mondo politico di riferimento, ma lascia il Paese dentro una storia sospesa. Non si può compiere il transito dal post-neo-fascismo alla guida di una democrazia come se fosse un salto, senza una pubblica riflessione su ciò che si lascia e ciò che si trova, tra i disvalori e i valori, gli errori, le scelte, il dovere del giudizio. È il grande tema del rendiconto, fondamento della trasparenza e della responsabilità di ogni leader davanti ai cittadini, soprattutto per chi viene da una cultura avversaria della democrazia, estranea al patto che ha scritto la Costituzione, derivata dall’esperienza di Salò, tragica per il Paese. Il rendiconto è un obbligo di verità, ma soprattutto è un debito morale nei confronti di tutta la popolazione, che ha il diritto di conoscere il rapporto tra il suo Presidente del Consiglio, il corso storico degli eventi, il suo significato, e le conseguenze che ne derivano. Questo dovere si può rinviare galleggiando nell’ambiguità di giudizi sfuggenti e parziali, quasi fossero estorti: ma non si può eludere. Nemmeno la vittoria elettorale, neppure il consenso degli elettori conquistato nelle urne cancella il dovere di fare i conti con la storia, e finalmente concluderla.

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