Migranti e valori, la premier scelga
Annalisa Cuzzocrea
Non è forse un bivio immediato, ma è un bivio. Che a Giorgia Meloni è stato posto davanti prima dal leader del Ppe Manfred Weber e poi, ieri, dalla presidente della commissione europea Ursula von der Leyen. Con chi vuole stare davvero in Europa la presidente del Consiglio di uno dei Paesi fondatori dell’Ue? Da chi pensa di poter ricevere più aiuto? Dal blocco di Visegrad che ha perso – si stanno autoincenerendo – i suoi punti di riferimento mondiali: Putin, Trump, Bolsonaro, o dal blocco dei popolari il cui aiuto, dal gas ai migranti, è sicuramente più spendibile ora che è al governo?
Finora Meloni non ha voluto in alcun modo rinnegare la sua vicinanza ai polacchi di Mateusz Morawiecki o agli ungheresi di Viktor Orban, tanto da far votare il suo gruppo – al Parlamento europeo – contro le sanzioni al governo di Budapest per le sue riforme illiberali e antidemocratiche. Ma è un fatto che gli amici della premier italiana siano, in questo momento, inservibili per il nostro Paese. Sulla questione del price cap al prezzo del gas, l’unico strumento che – ammesso che funzioni – può salvare l’Italia dalla morsa dei prezzi energetici unita a quella dell’inflazione, certo non ha aiutato Orban che resta il leader europeo più vicino a Vladimir Putin.
E l’ungherese non aiuterà, così come non lo faranno Polonia, Repubblica Ceca o Slovacchia, neanche sulla questione migranti che il governo italiano sventola come fosse un’emergenza tutte le volte che ce ne sono da affrontare di reali. Tra i punti fondamentali dell’incontro con la presidente della Commissione europea ieri ci sono stati gli avanzamenti del Migration pact, il nuovo patto europeo per le migrazioni e l’asilo che promette di superare i meccanismi del regolamento di Dublino e di sancire una volta per tutte il principio della solidarietà con i Paesi di primo approdo.
Quel patto però è stato bloccato fin dalla sua nascita, nel 2020, proprio dagli Stati di Visegrad e da coloro che la leader di Fratelli d’Italia considera alleati. Un giorno dopo l’annuncio di von der Leyen, che aveva detto «abbiamo bisogno di procedure eque e rapide e di un meccanismo permanente e giuridicamente vincolante che garantisca la solidarietà», il premier ungherese Orbán, il ceco Andrej Babis e il polacco Mateusz Morawiecki (lo slovacco Igor Matovič si era fatto rappresentare dalla Repubblica Ceca) sono volati a Bruxelles per dire: non se ne parla nemmeno. Quel che serve è chiudere i confini dell’Europa. Chiudere il mare. Fermare le partenze. La stessa ricetta che la destra ha portato in campagna elettorale ben sapendo quanto fosse inattuabile.
L’ostruzionismo dei sovranisti è continuato in questi anni e c’è da scommettere che continuerà, anche se le istituzioni europee hanno sottoscritto una road map che dovrebbe portare a un accordo prima delle prossime elezioni europee, nella primavera del 2024. Ed anche se del patto sulle migrazioni è già previsto che si parli al Consiglio europeo straordinario del 9-10 febbraio. Del resto, che le altre soluzioni – il blocco navale e gli hotspot per dividere i migranti economici dai profughi nei paesi di partenza – siano inattuabili, lo dimostra quel che è riuscito a fare finora il governo italiano che, secondo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, è «sulla strada giusta»: un decreto anti Ong il cui unico effetto reale è lasciare sguarnito per più tempo il tratto di mare che separa le coste africane dalle nostre, assegnando di volta in volta alle navi che salvano i naufraghi porti sempre più lontani in condizioni meteo sempre più difficili. «I nostri tecnici hanno valutato che si poteva fare», ha risposto ieri Piantedosi a chi gli ha sottoposto le difficoltà della Geo Barents – con a bordo 73 persone di cui 16 minori non accompagnati – a raggiungere il porto di Ancona. Quattro giorni di navigazione per persone ferite, torturate, alcune vive per miracolo.
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