Cosa sappiamo, per certo, sul caso Emanuela Orlandi, in 10 punti
di Fabrizio Peronaci
La verità storica e giudiziaria acquisita sul caso Orlandi, su cui il Vaticano ha riaperto le indagini: i pedinamenti di altre ragazze, i riscontri sulle due piste principali, il ruolo di Agca e De Pedis, il nesso con il caso Gregori
Emanuela Orlandi: inchiesta vaticana al via.
Dopo l’accelerazione dei giorni scorsi, che ha portato all’apertura di un fascicolo per omicidio e occultamento di cadavere da parte del Promotore di giustizia della Santa Sede, Alessandro Diddi, per la prima volta saranno dunque le autorità ecclesiastiche, con il supporto della Gendarmeria, a tentare di risolvere l’intrigo legato alla scomparsa della «ragazza con la fascetta». Quarant’anni dopo i fatti (la ragazza sparì il 22 giugno 1983) e in un clima di grandi aspettative.
Qualora la magistratura vaticana riuscisse ad arrivare dove non è giunta quella italiana, infatti, la luce della riconquistata verità e trasparenza su una pagina tanto buia e controversa si rifletterebbe anche sul pontificato di Francesco. Indizi, prove, riscontri: la possibile svolta passa da una rivisitazione delle piste percorse, che saranno scandagliate rivedendo vecchie carte e informative, nonché dall’audizione di nuovi testimoni. Un lavoro enorme, nel quale sarà centrale l’esame delle precedenti inchieste della Procura di Roma (1983-1997 e 2008-2015), da tempo archiviate. Con un obiettivo preliminare: individuare i fatti già emersi e indiscutibili, cristallizzati in verbali giudiziari sulla base di elementi probatori solidi, che possano essere usati come «base istruttoria» per successivi accertamenti. E allora eccoli, i 10 punti fermi da cui partire.
1 – Azione premeditata
Una prima certezza riguarda la natura del crimine ai danni della sventurata Emanuela Orlandi: si trattò di un allontanamento volontario da casa, in quanto la quindicenne figlia del messo pontificio Ercole, ingenuamente, cadde in un tranello, che però, nel giro di poche ore, diventò un sequestro di persona vero e proprio. Ma attenzione: Emanuela non fu la prima «scelta». Come evidenziato da due verbali d’interrogatorio dell’Arma dell’11 e del 24 luglio 1984, almeno due coetanee residenti in Vaticano, le figlie dell’aiutante da camera di Wojtyla, Angelo Gugel, e del capo della Gendarmeria, Camillo Cibin, furono «attenzionate», pedinate e poi scartate, in quanto i familiari ottennero una sorveglianza speciale (il primo verbale è di Ercole Orlandi, il secondo della diretta interessata, Raffaella Gugel, la quale riferì di essere stata seguita per settimane sul bus e per strada da un uomo «sui 28-30 anni, carnagione scura, tipo nazionalità turca»). Tale antefatto è rafforzato da un “alert” lanciato dal capo dello Sdece (servizi segreti francesi), il marchese Alexander De Marenches, su possibili rapimenti nelle Sacre mura e sembra accreditare la pista del terrorismo internazionale legata alle tensioni di quel periodo, in piena Guerra Fredda, e ai tentativi di Alì Agca di uscire dal carcere. Va infatti tenuto presente che – due anni prima – l’autore dell’attentato a Wojtyla (13 maggio 1981) era stato condannato all’ergastolo al termine di un processo-lampo (luglio 1981). E, molto stranamente, non aveva presentato appello. Aveva forse ricevuto qualche rassicurazione? Negli stessi mesi, mentre il Lupo grigio riceveva a Rebibbia la visita di due esponenti dei servizi segreti (uno Sisde, Luigi Bonagura, e l’altro Sismi, Alessandro Petruccelli), iniziarono a circolare voci sulla sua liberazione tramite il “prelevamento” di cittadini vaticani. Un caso? Non basta. La nuova inchiesta dovrà valutare anche un ulteriore elemento significativo e mai approfondito: Emanuela assunse la cittadinanza vaticana solo tre mesi prima di sparire, come attesta un atto anagrafico datato 23 marzo 1983 (protocollo n. 06773). Anche questa una coincidenza? Oppure, al contrario, la famiglia fu indotta dai rapitori, con un sotterfugio, a far «emigrare» la ragazza Oltretevere, per creare le condizioni del ricatto?
2 – Ricatto ai massimi livelli
Emanuela sparì il 22 giugno di 40 anni fa e la vicenda assunse presto rilievo planetario. A certificare la delicatezza del caso Orlandi e la probabile natura spionistica dell’azione sono quattro circostanze. La prima è che Giovanni Paolo II decise di pronunciare pubblicamente nome e cognome della quindicenne, con voce accorata, durante l’Angelus del 3 luglio 1983, solo 11 giorni dopo la scomparsa, condividendo «le ansie dei familiari» e facendo appello «al senso di umanità di chi ha responsabilità in questo caso». Impossibile che una scelta del genere non fosse stata vagliata in Segreteria di Stato: il Santo Padre non si occupa di «scappatelle». Emanuela doveva essere già diventata lo strumento di un’azione inconfessabile e di un ricatto ai massimi livelli, con il pontefice polacco nella parte della vittima, tanto da essere costretto a piegarsi. Altri elementi eloquenti: la concessione ai rapitori di un codice riservato (il 158) per contattare il Segretario di Stato Agostino Casaroli (procedura anomala, spiegabile solo con ragioni serie, il numero 2 vaticano non parla con chiunque gli telefoni); la presenza in casa Orlandi di due agenti del Sisde (Giulio Gangi, morto di recente, e Gianfranco Gramendola) già 48 ore dopo la scomparsa; la pressione fatta dagli stessi 007 perché il padre nominasse un avvocato vicino ai servizi segreti, Gennaro Egidio, la cui parcella (altro indizio sottovalutato) non fu mai presentata a Ercole Orlandi e saldata in altro modo, mai chiarito.
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