Cosa sappiamo, per certo, sul caso Emanuela Orlandi, in 10 punti
3 – Utilizzo dei codici
L’utilizzo di messaggi cifrati è il terzo dato di fatto dal quale la nuova inchiesta non potrà prescindere. I mandanti del sequestro della giovane cittadina vaticana la fecero avvicinare da un loro «operatore» (in tempi recenti si è ipotizzato fosse Marco Accetti, il fotografo romano oggi67enne a lungo indagato dalla Procura) per proporle di distribuire volantini della ditta di cosmetici «Avon» a una sfilata delle «Sorelle Fontana» presso la «Sala Borromini», in cambio di 375 mila lire per un solo pomeriggio di lavoro. I termini di tale (finta) offerta furono riferiti da Emanuela nella sua ultima telefonata a casa. Che si trattasse di una trappola e di messaggi in codice (non era in programma nessuna sfilata e il compenso era esorbitante, del tutto inverosimile), concepiti per diventare pubblici dopo la denuncia della famiglia, è fuori discussione. Ma resta da chiarire chi fossero le «entità» in campo: i rapitori di Emanuela (verosimilmente un gruppo di laici criminali, tonache infedeli, massoni e 007 deviati, ribattezzato «il ganglio») con chi intendevano «dialogare» sotto traccia? Chi era la controparte in Vaticano alla quale dettare le condizioni del rilascio dell’ostaggio? Non manca una possibile interpretazione specifica, che conduce a un alto prelato ancora in vita: la parola-chiave «Sorelle Fontana» (la cui sede era in piazza di Spagna) potrebbe infatti essere stata usata per richiamare la figura di monsignor Pierluigi Celata, braccio destro di Casaroli e all’epoca direttore dell’istituto San Giuseppe De Merode, ubicato nella stessa piazza. Altro possibile tassello, la decrittazione del codice «158», numero anagramma di «5-81», mese e anno del crimine in piazza San Pietro: fu usato per stabilire un nesso (sempre a uso riservato) tra caso Orlandi e attentato al Papa e così «firmare» il movente?
4 – Riscontri sulla pista internazionale
Emanuela scompare il 22 giugno 1983 e Ali Agca, sei giorni dopo, ritratta le accuse lanciate nei mesi precedenti a tre funzionari bulgari (ed estensivamente al Cremlino) di essere stati suoi complici e mandanti nel progetto di uccidere il Papa. L’elemento di riscontro più nitido della pista internazionale è questo: la retromarcia del mancato killer turco, avvenuta il 28 giugno 1983, prima davanti al giudice della pista «rossa» sull’attentato, Ilario Martella, e subito dopo in un scenata delle sue, nel cortile della Questura di Roma.
Il ragionamento del Lupo grigio (la cui intelligenza verrà provata da
svariate perizie: di certo il farsi passare inaffidabile è stata la sua polizza sulla vita) potrebbe essere stato questo: voi mi avete rassicurato, sequestrando una ragazzina vicina di casa del Sommo Padre che sarà rilasciata in cambio della mia scarcerazione, e io vi ripago rimangiandomi le accuse a Est e salvando gli equilibri della Ostpolitik, tanto cara al cardinale Casaroli.
Pista rossa polverizzata, dunque. In uno scenario in cui il doppio ricatto “cittadina vaticana” (Orlandi, per indurre la Santa Sede a non opporsi a un provvedimento di clemenza) e “cittadina italiana” (Gregori, per premere sull’allora presidente Pertini, titolare del provvedimento di grazia)
appare più che plausibile. Va ricordato che il processo istruito da
Martella contro 4 turchi e 3 bulgari terminerà nel 1986 con un nulla di
fatto: tutti assolti. Mosca estranea e giallo dei mandanti (di certo Agca si avvalse di un sostegno logistico e finanziario) mai risolto. A favore della pista internazionale c’è anche il fatto che lo scambio con
Emanuela (e in seguito anche con Mirella Gregori) sia stato perseguito
dai sequestratori (nei panni cangianti dell’Amerikano, del Fronte
Turkesh e infine del gruppo di Boston, vedi punti seguenti) con grande insistenza,
in tutti i comunicati, addirittura fino a tutto il 1985. Richieste e
messaggi si interruppero dopo la sentenza di assoluzione dei bulgari. Un
altro bizzarro sincronismo?
5 – Riscontri sulla pista economica
E veniamo al cosiddetto «movente multiplo». Sia l’analisi degli eventi legati alla politica vaticana dei primi anni Ottanta sia taluni messaggi dei rapitori lasciano emergere uno scenario ancora più complesso, fondato su elementi riscontrabili. I sequestratori, allontanando da casa Emanuela, potrebbero aver innescato un duplice ricatto, con un uso per così dire «multitasking» della quindicenne: da un lato la politica internazionale (ritrattazione di Agca per «salvare» Mosca) e dall’altro la malagestione dei fondi vaticani, all’epoca gestiti dal presidente dello Ior, Casimir Marcinkus, parte dei quali spediti in Polonia a sostengo del sindacato Solidarnosc. La pressione mirava a estromettere dalla catena di comando l’arcivescovo statunitense, già «sotto botta» per il crack del Banco Ambrosiano, e a recuperare i soldi non sempre puliti (mala romana, mafia) transitati in Vaticano? In questa direzione andrebbero tre elementi, il primo dei quali segnalato all’autore di questo articolo da fonte coperta. Eccoli. Uno: l’uso del codice Avon usato per tirare in ballo,in forma di anagramma, nei negoziati sotterranei, la pontificia fondazione Nova (stesse lettere al contrario), cassaforte vaticana (istituita nel 1960, poi cambiata di nome) coinvolta nella gestione dell’obolo della Chiesa. Due: il rimando al «5-1984» contenuto in un comunicato spedito da Boston nell’ottobre 1983, nel quale si faceva riferimento al «sequestro di altre ragazze», ma in realtà, stando a quanto riferito da Accetti, inserito al fine di “dettare” alla controparte i tempi dell’intesa Italia-Santa Sede sul dissesto dell’Ambrosiano: la transazione da 250 miliardi di lire (sui mille vantati dai creditori) sarà definita proprio nel maggio 1984, con l’accordo di Ginevra, e questo è un fatto. Tre: la coincidenza temporale tra i primi giorni della presunta «scappatella» di Emanuela (accreditata dalle telefonate di «Pierluigi» e «Mario» il 25 e il 28 giugno) e le tensioni all’interno della commissione bilaterale Italia-Vaticano (composta da Agostino Gambino, Pellegrino Capaldo e Renato Dardozzi per la parte vaticana e da Filippo Chiomenti, Mario Cattaneo e Alberto Santa Maria per quella italiana), che avrebbe dovuto chiudere l’intesa sulla vicenda Ior-Ambrosiano il 30 giugno, ma fu costretta a rinviare per dissensi interni. Emanuela fu «trattenuta» allo scopo di esercitare ulteriori pressioni?
6 – Regia unica Amerikano-Turkesh
La presenza di un unico soggetto dietro la molteplicità di messaggi è un altro elemento acquisito. Dopo le schermaglie dei primi telefonisti, dal 5 luglio 1983 a gestire la comunicazione con la famiglia e gli organi di stampa è il cosiddetto «Amerikano» (lo stesso che telefona al cardinale Casaroli, e la cui voce somiglia a quella di Marco Accetti); poi, a partire dal 4 agosto, i comunicati sono firmati anche dal «Fronte Turkesh». Una sigla slegata, inseritasi per depistare? No. Erano «entità» oscure di certo legate tra loro, una più aspra nei toni, l’altra più dialogante («falchi» e «colombe» per la stampa). Così come «l’Amerikano» aveva dato prova del possesso della ragazza (o perlomeno di essere in contatto con i veri rapitori) rivelando un fatto specifico («Emanuela era stata in chiesa il 22 aprile 1983», dettaglio che neanche la famiglia ricordava, prova di precedenti pedinamenti), così il «Turkesh» nel «Komunicato 3» inviato all’Ansa il 13 agosto («Punto IV: cena lunedì a casa di...») mostrò di sapere che Emanuela era stata da parenti due sere prima di sparire, circostanza anche questa non nota. Regia unica, dunque. Inoltre, da ottobre, con quattro lettere altrettanto circostanziate spedite al corrispondente a Roma della Cbs, Richard Roth, i rapitori assunsero le sembianze del gruppo di Boston: questioni da rivedere dal punto di vista investigativo, in quanto l’allora giovanissima moglie di Marco Accetti proprio in quel periodo (agosto-dicembre 1983) si trovò nella capitale del Massachussets, dove studiava suo fratello. Ennesima coincidenza?
7 – Legame con il caso Gregori
Ma la fine di Mirella Gregori, scomparsa a Roma 46 giorni prima, il 7 maggio 1983 dalla sua casa di via Nomentana, perché sarebbe collegata a quella della «ragazza con la fascetta»? Il dubbio di un abbinamento forzato ha spesso aleggiato sull’intrigo, ma a scrollare ogni dubbio ci sono elementi probatori forti. Primo punto: una perizia grafologica disposta all’epoca dai magistrati dimostrò che il testo lasciato dai rapitori di Emanuela in un furgone Rai a Castelgandolfo il 4 settembre 1983 era stato scritto dalla stessa mano che pochi giorni dopo, l’8 settembre, inviò una lettera ai Gregori per rivendicare la «detenzione» di Mirella. Secondo: a fine settembre l’Amerikano (voce di Accetti, secondo i periti sentiti dalla docu-serie «Vatican girl», che nei di recente ha riacceso l’interesse sul caso a livello mondiale) telefonò al bar dei Gregori elencando i vestiti indossati da Mirella (compresa la marca della biancheria intima). Terzo: esiste prova inconfutabile – grazie a una lettera timbrata «Quirinale», recapitata alla signora Gregori in data 21 giugno 1983 – che il presidente Pertini si interessò di Mirella prim’ancora che sparisse Emanuela, segno che i ricatti nell’ombra erano già cominciati.
8 – La sepoltura «indegna» del boss
Banda della Magliana e «indegna» sepoltura del boss Enrico De Pedis in una basilica del centro di Roma (a tal proposito fu usato il codice “Aliz-Lazio”, qui il servizio del Corriere) vanno a definire il riscontro numero 8. Il legame tra malavita romana e ambienti religiosi è noto e rappresenta un potente elemento di prova di possibili malefatte. Anche questo «link» potrebbe essere riesaminato dagli inquirenti d’Oltretevere nella nuova inchiesta. Tutto partì dalla telefonata al Chi l’ha visto? del luglio 2005, da parte di persona di certo informata. Eccola, riportata senza tagli: «Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della basilica di Sant’Apollinare, e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti. E chiedete al barista di via Montebello, che pure la figlia stava con lei, con l’altra Emanuela… E i genitori di Emanuela sanno tutto. Però siccome siete omertosi, non direte un caz… come al solito!» È una traccia pesante, un ciclone sul doppio giallo, che ha messo gravemente in imbarazzo la Chiesa, in quanto nel 1990 era stato proprio il vicario di Roma, Ugo Poletti, ad autorizzare la sepoltura di De Pedis chiesta dall’allora rettore della basilica, don Pietro Vergari. Confermato anche il coinvolgimento della Gregori. Nel 2012, non a caso, dopo una trattativa con la Procura che nel frattempo aveva aperto l’inchiesta-bis (indagati l’ex amante di «Renatino» Sabrina Minardi, tre malavitosi della vecchia banda, don Vergari e Marco Accetti), il Vaticano riuscirà a sbarazzarsi del macigno-De Pedis, con l’estumulazione della salma del boss, poi fatta cremare dalla moglie Carla (qui il ritratto della signora, morta nel 2020).
9 – Ruolo della banda della Magliana
La malavita romana «manovalanza» per gestire Emanuela (e anche Mirella) nei giorni successivi alla scomparsa: è questo lo scenario delineato dal procuratore aggiunto Capaldo nei 4 anni in cui fu lasciato indagare (2008-2012, poi il suo capo Pignatone avocò a sé l’inchiesta e la condusse all’archiviazione), fondato sulle dichiarazioni autoaccusatorie di Sabrina Minardi. Donna fragile, per anni cocainomane, al di là delle rivelazioni non dimostrabili («fui incaricata da Renato di portare Emanuela dal Gianicolo al benzinaio in fondo alla strada delle mille curve, dove la consegnai a un uomo in tonaca; Renatino frequentava Marcinkus, il quale violentò Emanuela, che poi fu uccisa e gettata in una betoniera»), l’ex «preferita» del gangster ha rivelato un elemento di rilievo: l’ubicazione della possibile “prigione” dell’ostaggio, in via Pignatelli, a Monteverde Nuovo, dove la polizia effettivamente trovò il cunicolo indicato. La questione resta tuttavia ancora aperta, in quanto tracce di Dna della ragazzina nel pertugio sotto il palazzo non sono state individuate.
10 – Ruolo dell’uomo del flauto
Flauto consegnato alla Procura di Roma, confronti tra la sua voce e quella dei telefonisti dell’epoca, verifica su chi potrebbe aver scritto (a Roma) e poi inviato (da Boston) le lettere di rivendicazione che nell’autunno 1983 indussero il presidente Pertini a trattare, riesame della lettura storica del doppio sequestro e dei moventi (multipli) indicati: ritrattazione di Agca, «defenestrazione» di Marcinkus, ma anche alcune nomine ecclesiastiche a favore della propria «fazione» (da lui descritta filo-Casaroli) e ritocchi al codice canonico. Il lavoro più impegnativo del procuratore Diddi (qualora scegliesse di non lasciare nulla di intentato) sarà probabilmente quello sul personaggio più inquietante dell’intrigo, quel Marco Accetti che nel 2013 consegnò il flauto riconosciuto dai familiari, nonché un lungo memoriale in cui si è autoaccusato del duplice rapimento. I riscontri al racconto finora non sono mancati (dal flauto alla decrittazione dei codici, passando per la voce compatibile, la conoscenza della cabine della Sip da cui partirono le chiamate e per il suo coinvolgimento in almeno altre due oscure vicende, il caso Garramon e l’omicidio Skerl). Ciò che manca è una piena confessione sui sodali, sui mandanti dell’azione Orlandi-Gregori: chi furono i «capi», coloro che ingaggiarono l’uomo del flauto per lo «sporco lavoro» sulla pelle delle due sfortunate ragazzine? Accetti ha parlato di tonache non in linea con papa Woytila e agenti dei servizi segreti dell’Est, ma senza mai fare nomi. Ora il compito passa alla giustizia vaticana. Riuscirà a spingersi, la Santa Sede, fin dove il «vicino di casa», lo Stato italiano, non ha avuto la capacità o la volontà di arrivare?
CORRIERE.IT
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