Bindi e Dirindin: la Sanità svenduta in nome del mercato, ma l’Italia rimane un piccolo miracolo

Come procedere allora? È innanzitutto necessaria una seria riflessione sulla pandemia ideologica che da un paio di decenni ha colpito il nostro Paese e ha spinto i governi a ridurre progressivamente il ruolo dello Stato, in particolare nel welfare. Eppure, in nessun altro settore come in quello della salute, i fallimenti del mercato sono noti, rilevanti e causa di disuguaglianze. Il Ssn è un patrimonio di civiltà proprio perché garantisce a tutti un trattamento uguale a quello riservato ai più fortunati e perché libera ognuno di noi dalla paura di non avere i soldi per curare un figlio o un familiare. Al contrario, le assicurazioni evitano le persone più esposte al rischio di ammalarsi e impongono tetti massimi di rimborso che penalizzano proprio chi ha più bisogno. Non si tratta di demonizzare il mercato ma di riconoscerne i vizi, e non solo le virtù, a maggior ragione quando producono ingiustizie. E si tratta di non dimenticare che la salute non è solo un diritto individuale ma è anche interesse della collettività, come ci ha ricordato la pandemia.

È necessario poi accantonare ogni ipotesi di autonomia differenziata: i problemi sollevati dalle Regioni sono comuni a tutta l’Italia e vanno affrontati a livello nazionale. In un Paese attraversato da profonde disuguaglianze territoriali va evitato di attribuire maggiore autonomia a chi presume di essere in grado di risolverli meglio e più rapidamente degli altri, ma sicuramente a danno delle Regioni storicamente meno attrezzate.

Fondamentale è avviare una seria politica del personale, capace di riconoscere il valore del lavoro di cura, a maggior ragione in un settore ad alta intensità di lavoro. Il trattamento che riserviamo ai nostri professionisti rivela il tipo di assistenza che vogliamo dare alla popolazione: un’amministrazione che non rispetta le norme sugli orari di lavoro, non rinnova i contratti di lavoro, ricorre all’intermediazione di manodopera, incoraggia l’impiego dei «gettonisti», sottovaluta la programmazione della formazione delle diverse figure specialistiche, non può che essere un’amministrazione che non ha a cuore l’affidabilità del servizio offerto. Il giudizio avvilente coinvolge sia i governi centrali sia quelli regionali, i quali con la scusa della carenza di risorse hanno rinunciato a svolgere la loro principale funzione, la tutela della salute, mentre adesso devono dimostrare di saper utilizzare al meglio i fondi del Pnrr. Tutto ciò richiederebbe più impegno (a partire dal livello centrale), più risorse (in armonia con quanto succede negli altri paesi sviluppati) e più indipendenza dagli interessi dell’industria della salute. Ne trarrebbe giovamento persino l’economia, grazie alla riduzione dell’incertezza e della precarietà.

Ma viviamo tempi difficili. La storia della sanità pubblica italiana ci induce ad essere ottimisti mentre le tante incrostazioni ci portano a temere che le cose possano volgere al peggio. Nessuno comunque pensi di cavarsela da solo, né i professionisti che scappano nel privato né chi ritiene sufficiente dotarsi di una copertura assicurativa.

*Associazione Salute Diritto Fondamentale

LA STAMPA

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