Cattura Matteo Messina Denaro, il colonnello Arcidiacono: «L’ho visto e non ho avuto dubbi»
di Alfio Sciacca
L’ufficiale a capo di 100 uomini: «Le manette non servivano. Alla fine lui
ci ha ringraziati per come l’abbiamo trattato». «Gli abbiamo dato dell’acqua
e chiesto se avesse bisogno di mangiare qualcosa per le medicine»
DAL NOSTRO INVIATO
PALERMO – Come il capitano Ultimo con Totò Riina
anche lui ha guidato una squadra di «cacciatori» alla ricerca del
superlatitante Matteo Messina Denaro. Ma, a differenza di «Ultimo», a
missione compiuta preferisce non indossare il «mefisto» o sciarponi per
nascondere la propria identità
. Tutt’altro. Il colonnello Lucio Arcidiacono
ci mette la faccia e non ha alcun timore a svelare la sua identità.
«Sono il comandante di un reparto operativo che ha degli obblighi e
ritengo di dover operare in questo modo — replica secco a chi glielo fa
notare —, in passato ho più volte testimoniato in vari processi. Non ho
nulla da nascondere».
E poi aggiunge: «Anche perché io sono entrato nell’Arma il 28 ottobre del 1993 e un siciliano capisce bene cosa significa». Come a dire: la stagione di sangue culminata con le stragi del ’92-’93 Arcidiacono se la porta dentro come una ferita ancora sanguinante. È questo omaccione nato a Catania 49 anni fa il capo operativo della squadra che, seguendo quello che ci tengono a definire «il metodo dalla Chiesa», ha stretto il cerchio attorno a Messina Denaro .Un passato a capo dei Ros di Catania dove scoperchiò il pentolone delle collusioni tra mafia e politica, anni fa è tornato a Palermo per coordinare la squadra messa su per dare la caccia al boss.
«Io e i mei uomini eravamo sulle sue tracce da almeno 8 anni
— spiega—. Prima al reparto anticrimine di Palermo e poi come
comandante del primo reparto investigativo che si dedica proprio alla
ricerca dei grandi latitanti». Ai suoi ordini almeno un centinaio di
militari («ma dei miei non dico nulla») che dopo lunghe indagini fatte
di intercettazioni e pedinamenti, soprattutto di natura informatica,
hanno intuito che quell’uomo che si spacciava per Andrea Bonafede
potesse essere proprio l’ultimo dei grandi latitanti di Cosa nostra.
«Tutto è cominciato — racconta — intorno alle 6.30. Sapevamo che
Bonafede sarebbe andato alla clinica, ma non avevamo la certezza di chi
si celava dietro quel nome. È arrivato a bordo di una Fiat Bravo bianca e
si è subito diretto all’accettazione». La cattura però avviene
successivamente, fuori dal perimetro della clinica Maddalena. Il
sedicente Bonafede «esce su una stradina laterale intorno alle 8.20,
probabilmente diretto in un baretto per fare colazione».
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