Quelle vite spezzate che non vediamo più
Marco Revelli
«Saranno state le dieci, le dieci e un quarto, Metello affondava la cazzuola nella calcina, quando sentì un urlo, che durò un baleno e fu sepolto dal tonfo di un corpo andato a schiacciarsi sulla massicciata. Quinto Pallesi era precipitato dall’impalcatura». È un passaggio cruciale del grande romanzo sociale di Vasco Pratolini, che segna una svolta nella vicenda del protagonista. Da allora la morte sul lavoro o “per lavoro” ha fatto la sua comparsa carsicamente, nella letteratura d’impegno del nostro Paese. Si pensi al furibondo, blasfemo, durissimo “Il nemico” (2009) di Emanuele Tonon, sulla vita invivibile di Settimo, destinato a morire soffocato, trovandosi i polmoni intasati di polvere di legno, quella stessa “che ha inalato per trentaquattro anni” nella fabbrica-mostro del Nordest. O a “Veleno” (2013) di Cristina Zagaria, sulla strage quotidiana che silenziosamente si consuma all’Ilva di Taranto, per molti versi parallelo ad “Amianto”. Una storia operaia (2014), il romanzo famigliare in cui Alberto Prunetti ripercorre la storia del padre, metalmeccanico saldatore che aveva lavorato in tutte le fabbriche più contaminate, da Piombino a Taranto, da Busalla a Casale Monferrato con la famigerata Eternit. Per non parlare dello splendido e terribile poemetto in versi liberi di Giorgio Luzzi sul “Rogo alla Thyssen-Krupp”, utilizzato poi come libretto dal compositore Adriano Guarnieri per un’opera dal titolo diverso, “Lo stridere luttuoso degli acciai” (regia di Alberto Jona).
In tutte queste opere la morte sul lavoro appare indissolubilmente legata alla persona del lavoratore, figura in carne e ossa, e per questo assume il carattere dello “scandalo” che le compete: segna una fine irrimediabile, lo spezzarsi di una biografia personale, e apre – nel lettore – un percorso di riflessione e di ricerca sul “senso” dell’accaduto. In tutti questi casi la morte rimane una ferita aperta, cui si associa un moto di rabbia e di rivolta. Nella statistica che invece si dipana, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, nella cronaca ormai atrocemente ripetitiva che segna il presente, tutto questo si perde. Nella sola giornata di ieri due lavoratori sono morti, a Roma e a Brescia, quasi nello stesso modo: schiacciati dal carico che avevano trasportato. L’incidente bresciano è avvenuto nello stesso momento in cui, a poca distanza, si stava celebrando il funerale di un’altra vittima del lavoro: un operaio di 28 anni morto dilaniato dal nastro trasportatore a fianco del quale lavorava. Nei primi tre giorni del 2023 sono state 7 le vittime sul lavoro. Nel 2022 gli incidenti mortali erano stati 1006, in crescita rispetto al 2021 del 18% per i maschi e addirittura del 49% per le donne. Le denunce di infortunio avevano raggiunto la cifra impressionante di 652.002, il 30% in più rispetto all’anno precedente. Numeri da stato di guerra, che tuttavia si scolorano e affondano nel mare opaco della statistica, perdendo il loro vero significato.
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